Ci parla con un tono di voce basso e pacato, sceglie con cura le parole, e, tra una sigaretta e l’altra, Stefania Zamparelli racconta con una cadenza che non tradisce le sue origini partenopee.
La sua indole ribelle emerge immediatamente quando racconta: “Sono nata in una famiglia di medici: mio padre era medico, i miei fratelli sono medici, e anche io sarei dovuta diventare medico se avessi assecondato i loro progetti, ma ho deluso tutti quando, al momento della scelta della facoltà, mi sono iscritta in lingue e letterature straniere. Una volta completati gli studi ho lavorato come insegnante, ma odiavo quell’impiego, così ho deciso di lasciare l’Italia e ho scelto di venire a New York per perfezionare il mio inglese…o almeno questo era il pretesto necessario alla partenza. All’inizio è stata dura: dividevo con altri ragazzi un appartamento che stento a definire tale, in una delle zone più malfamate della città.
Per pagare la scuola di fotografia, la School of Visual Art, e le altre spese ho svolto una serie interminabile di lavori: ho cominciato come busgirl, poi ho fatto la cameriera in un ristorante italiano, ho venduto magliette, ho fatto le pulizie, la guardarobiera …insomma, ero disposta a fare qualunque cosa pur di restare qui e riuscire a coprire le mie spese da sola senza chiedere dei soldi a mio padre. Erano lavori che mi deprimevano, mi ricordo ancora la sensazione di nausea che provavo ogni volta che entravo nel ristorante e inevitabilmente pensavo al vai e vieni dalla cucina, a quegli odori e a quel sorriso forzato che avrei dovuto mantenere per tutta la serata. Così ho pensato di vestire nuovamente i panni della professoressa: insegnavo italiano privatamente questa volta, ma l’esperienza è stata, ancora una volta, fallimentare: le persone per cui lavoravo erano tutte benestanti, nessuno era davvero motivato a imparare, e questo mi indisponeva, quindi ho deciso che non avrei mai più fatto l’insegnante! Nel frattempo collezionavo lettere di risposta dai vari photo editor newyorkesi a cui avevo mandato il mio portfolio che mi rispondevano immancabilmente con <<Your work looks great, keep shooting!>> e che io traducevo con "Non andrai mai da nessuna parte>>. ”
Stefania si presenta con una personalità forte. Appare subito una donna tutta d’un pezzo, concreta, decisa, diretta, essenziale. Lei stessa si definisce “per niente socievole” e continua “mi piace stare per fatti miei, in silenzio, forse per questo amo tanto la fotografia, perché è immediata e silenziosa.”
Già, perchè dopo i tanti e diversissimi impieghi svolti, Stefania, alla fine ha scelto di lavorare con la fotografia. “Credo di essermi appassionata alla fotografia quando ero giovanissima, appena teenager: una volta al mese mio padre riceveva per posta una rivista di medicina di cui conservo ancora diversi numeri, si chiama <<In tema di Medicina e Cultura>>. Ne ero affascinata non solo per gli articoli che certamente erano interessanti, ma quello che mi rapiva erano le immagini: fotografie assolutamente all’avanguardia per quegli anni: erano tante, quasi su ogni foglio ce n’era stampata una ed erano abbastanza grandi da poterne studiare i dettagli. Non mi stancavo mai di guardarle, ancora adesso le trovo incredibilmente belle, ogni tanto sfoglio ancora qualche numero della rivista.”
Ancora una sigaretta e poi, finalmente, con cura ed attenzione, Stefania prende delle grandi stampe di fotografie e, raccontando piccoli aneddoti, le sfoglia. Quasi tutte le immagini ritraggono soggetti umani, pochi paesaggi naturali o artificiali; sono tutte fotografie scattate tra l’Africa e l’Asia: Syria, Numibia, Afghanistan, Papua. “Nelle mie fotografie cerco di catturare il tempo: forse tra dieci anni non sarà più possibile fotografare le stesse cose, è il caso delle simulazioni di guerra e degli altri riti della tribù in Papua”. Poi spiega: “Mi piace viaggiare. Appena ne ho l’opportunità parto. Sto via per due, tre, quattro mesi…più che posso. Visito queste zone del mondo che sembrano davvero dimenticate da tutti, sono posti dove il turismo non arriva e per questo, almeno da questo punto di vista, immacolate.
Di conseguenza sono zone abitate da popolazioni che vivono nel modo più semplice possibile in abitazioni spesso prive di acqua corrente e di elettricità; sono zone dove le persone conservano i valori più antichi del mondo, quelli che esistevano prima che le religioni o le convenzioni li istituzionalizzassero. E’ questo che voglio riportare quando scatto una foto, o meglio, lo voglio mostrare! Potrei raccontarlo, certo, ma odio la narrativa, la fuggo in ogni modo possibile, quindi al narrare preferisco l’indicare, il fotografare. Voglio fotografare/raccontare che il cosiddetto Terzo Mondo ha qualcosa che va al di là dello stereotipo che i paesi civilizzati offrono, per questo le persone che ritraggo in foto sorridono, giocano, pregano, lavorano, protestano. Non c’è niente di diverso tra la loro vita e la nostra: facciamo tutti le stesse cose, vogliamo tutti le stesse cose.”
Ed è proprio per “mostrare, indicare, documentare” e, a suo modo, raccontare, che anche Stefania, insieme ad altri 1800 artisti residenti a Brooklyn, prenderà parte all’ Open Studio, una manifestazione atta a promuovere l’arte. Nei giorni 8 e 9 Settembre gli artisti apriranno le porte dei loro studi al pubblico che attraverso una votazione on line deciderà quale artista, tra i 1800, esporrà i propri lavori al Brooklyn Museum.
Stefania è una dei 68 artisti partecipanti residenti nel quartiere di Bedford Stuyvesant. “Non ho uno studio, quindi aprirò le porte di casa mia dove allestirò una piccola esposizione dei miei lavori” conclude Stefania, “e d’altra parte quando non sono in viaggio svolgo qui tutto il mio lavoro”.
Bolivia, Senegal, Egitto, Afghanistan. Quelli che Stefania visita sono tutti luoghi e popoli, in un modo o nell’altro, “al limite”, eppure sono questi i luoghi e i popoli che Stefania ama e fotografa forse perché, almeno un po’, le somigliano.