Giuseppe Di Piazza. Narrare per immagini
Fermatevi qualche attimo per guardare ed entrare nel suoi scatti. Rubate del tempo a questa vita che sovrappone sempre di più immagini su immagini. Di selfie, in selfie, tra Instagram e Facebook, le fotografie sono diventate piu’ veloci del tempo che passa. Ricordate? Erano nate per fermarlo il tempo. Restituitevi lo stupore di una fotografia guardata con attenzione, per scoprirne il suo momento. L’intento del fotografo. Fatevi suggestionare poi per renderla vostra, amarla o odiarla. Fatelo con le foto di Giuseppe di Piazza, esposte presso la Casa Italiana Zerilli-Marimò. “Landascapes” pieni di sensazioni, di pensieri, di vita.
Una vita tra immagini e testi
“La fotografia per me è stato un dono e una scoperta dei miei dodici anni. Grazie a mia madre, che mi regalò una Kodak Instamatic, di quelle da ragazzini,” ci racconta Giuseppe Di Piazza. "Ricordo che facemmo un giro a Roma - la mia prima volta - e fotografai la città. Fu un’emozione. Era il settembre del 1970, si celebrava un secolo dalla 'presa di Porta Pia' [la conquista di Roma da parte del Regno d’Italia e la definitiva unificazione del paese--ndr]. Roma era in festa. Rimasi colpito dalla possibilità di ritrarre la sua bellezza in bianco e nero.” Comincia così la sua avventura da fotografo che, naturalmente data l’epoca, passa per la camera oscura: “Trascorrevo intere giornate sotto quelle luci rosse. C’e’ arte nella camera oscura. Ti insegna a capire la luce, quella che ti entra nella macchina, quella che usi per stampare. La fotosensibilità, le correzioni.” E Giuseppe ragiona ancora oggi in termini di tempi e diaframmi, in analogico, anche quando usa macchine digitali e la post produzione la fa nella così detta ‘camera chiara,’ cioè in Photoshop.
Tutto ha origine con la mamma insomma? “Sì. Mia mamma era gallerista d’arte e con mio padre - che faceva il medico – aprì una galleria a Palermo nel 1966, forse una delle gallerie più importanti del sud Italia in quegli anni. Loro mi hanno permesso di crescere in mezzo ai quadri e ai pittori, in una realtà visiva straordinaria. Ho potuto conoscere artisti e scrittori siciliani di livello nazionale come Leonardo Sciascia e Renato Guttuso.”
Ecco dunque l’origine dell’intreccio tra fotografia e scrittura, tra immagini e testo, nella vita di Giuseppe. Il ragazzo della camera oscura, avrebbe poi intrapreso una carriera di successo come giornalista e scrittore, che lo porterà alla direzione di diverse testate, per ultima il 'Corriere Innovazione', il settimanale dedicato all’innovazione del più grande quotidiano italiano, il Corriere della Sera. La domanda viene spontanea: Quanto è stata importante la fotografia nelle sue 'altre carriere’?
“Vanno di pari passo. La fotografia è una parte del giornalismo stesso. A metà degli anni '80 già lavoravo con una società americana che acquistava da me foto e testi. Mi compravano i servizi che venivano distribuiti ad una quarantina di giornali. Ma anche nell mia vita di scrittore la fotografia viene prima. Io penso i miei romanzi per inquadrature, per quadri. Quando immagino una scena che devo descrivere, la penso in maniera fotografica, o meglio cinematografica.”
Oggi però il suo approccio è molto lontano dalla fotografia come testimonianza. “Mi piace più parlarne come espressione di sentimenti e visione, percezioni. Sono interessato alla parte artistica… Ma al tempo stesso quando scrivo uso molto le foto, le cerco anche online, guardo sempre le immagini delle cose su cui devo scrivere.”
Quanto è italiana New York?
Negli anni ’80 Giuseppe lascia Palermo, dove è nato e ha trascorso la gioventù, per trasferirsi a Roma, e infine a Milano, dove vive oggi. Ma ha anche un rapporto molto stretto con l’America e ritiene New York uno dei suoi più grandi luoghi d’ispirazione. “NYC è uno stato mentale, come dicevano Alicia Keys e Jay-Z. Non è soltanto una città. Rappresenta la condizione esistenziale di tante persone che hanno deciso di vivere insieme. E chi viene qui anche solo per quindici giorni viene accolto, da questo stato dell’anima. Per me che scrivo e fotografo, forse luogo migliore non c’è —dopo la mia Sicilia, ovviamente.”
Ma il legame è ancora più profondo... Giuseppe ha Roberta, la sua bellissima moglie americana, e poi un bisnonno emigrante. C’è mancato poco che non nascesse negli Stati Unitii anche lui: “Io adoro gli italiani d’America, perché dovevo esserci anche io tra loro. Mio bisnonno Luigi faceva il fabbro, e nel 1899 si trasferì proprio qui, lavorava ai cantieri navali di Brooklyn. Ma purtroppo dopo qualche anno si ammalò e dovette tornare in Sicilia.”
Così da adulto, ormai giornalista affermato del più grande quotidiano italiano, il Corriere della Sera, è Giuseppe che torna a NY per documentare la sua anima italiana, e ne rimane folgorato: “Ebbi la conferma allora di una grande ricchezza che viene troppo spesso trascurata. Abbiamo costruito delle comunità vivacissime che sono un pezzo importante della struttura sociale americana. E’ un patrimonio pazzesco che voglio conoscere sempre meglio. Nuovi americani - italiani d’America, americani d’Italia – comunità che magari hanno perso la coesione interna, ma che sanno bene da dove vengono.”
E poi c’è la New York che sa anche sonnecchiare, “quasi come un borgo italiano” ci dice. Nelle guide turistiche è descritta come la città che non dorme mai, ma il vero newyorkese sa che non è solo così. New York ha i suoi momenti di sonnolenza, che sono spesso tra i più affascinanti, e questo non sfugge a Giuseppe… “I ritmi li puoi dare tu a NY. Se scrivi romanzi, vai a fare aperitivi con amici, porti fuori il cane e parli di letteratura arrivando fino ai margini dell East River, vivi in una maniera paradisiaca, e puoi sentirti anche come in un piccolo borgo italiano. Non sarà il mare di Capri, ma puoi assaporarne il sapore. Se ti allontani dai luoghi simbolo di Manhattan, quelli più famosi, puoi scoprire una città bellissima e quasi sconosciuta.”
Paesaggi e ritratti
In aprile alla Casa Italiana Zerilli-Marimò della NYU Giuseppe espone “Landscapes”. Una serie di scatti del suo lavoro sul paesaggio urbano, la sua visone di grandi città, da New York a Singapore, ma anche di tante piccole località italiane… Perché “Landscapes?” “Perché mi dà gioia descrivere luoghi che siano emotivamente riconoscibili, scattare foto che rappresentano sensazioni. Devo dire che i commenti dei giornalisti descrivono a volte dei miei lavori andando al di là dal mio stesso intento. Ci sono intenzioni che il pittore non sa di avere. E’ così anche per il fotografo.”
Ma Giuseppe di Piazza è anche un grande ritrattista, ma lui nega, in un cenno secondo noi di eccessiva modestia: “Non mi sento un ritrattista—è una cosa estremamente difficile—anche se ho un archivio di ritratti decisamente importante a partire dagli anni 60. Adoro fotografare gli esseri umani, le donne in particolare. Con loro riesco a stabilire un dialogo mentre le fotografo. Forse perché nella mia carriera ho diretto magazine molto basati sulle immagini. Ma mi sento più a mio agio con il paesaggio, che è figlio, diciamo, della mia formazione digitale. Il digitale mi ha permesso di lavorare come volevo io, avendo a disposizione una tavolozza di colori. Con l’analogico non era facile. Dunque per me il colore è il linguaggio del paesaggio. Il B/N è il linguaggio del ritratto “
Insistiamo, perché i suoi ritratti di donna sono davvero notevoli. Forse perché a scrivere è una donna. La sua sicilianità, che scruta con sapiente curiosità, ma sempre discreta, mai invadente, ti accarezza ad ogni scatto. Tutte le donne amerebbero farsi fotografare così. Come fa? “Voglio che si riconoscano. Faccio uno sforzo molto forte per non alterare la realtà, per cogliere una donna nel suo momento migliore, nella sua bellezza interiore. Non riesco quindi a fare ritratti costruiti. Ho bisogno di creare un gioco di complicità e di sguardi tra la modella e il fotografo. Scatto quando riesco a vedere la bellezza. Ci sono fotografi che usano le modelle per ‘modellarle’ come un materiale plastico, io no.”
Dunque vi invitiamo ad andare sul suo sito per scoprire anche queste foto, che speriamo di vedere presto a New York dal vivo, dopo suoi stupendi “Landscapes” che per ora sono, come lui stesso ci dice, “Non una mostra, ma LA mostra.” “Essere invitato ad esporre in un luogo così prestigioso come la Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University mi dà grande gioia, è un enorme riconoscimento per il lavoro che sto facendo. E ringrazio davvero di cuore il direttore Stefano Albertini che lo ha reso possibile.”
E cosa prova Giuseppe di Piazza ad esporre per la prima volta a New York?
“Un’emozione indescrivibile. Anche perché come ti dicevo, la città è una parte della mia famiglia. Una storia che poteva essere, ma non è stata. Una continua tentazione.”
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