Il Volo di New York. "Il tempo che vorrei" all'Istituto Italiano di Cultura
“È stato bello venire alla presentazione del libro qui a New York prendendo la metropolitana e non un aereo, dal momento che mi trovo qui da un mese e mezzo” . Così comincia l’intervento di Fabio Volo venerdì 22 gennaio all’Istituto Italiano di Cultura di New York, per la presentazione di “Il tempo che vorrei”, edito da Mondadori.
È questo il suo quinto libro, ma nonostante ciò in Italia, lui dice, ancora non viene considerato uno scrittore. “Questa è una delle grandi differenze fra l’Italia e l’America. Qui nessuno si scandalizza se fai l’attore, lo scrittore, il presentatore TV e il DJ alla radio. Fa tutto parte di una carriera artistica. In Italia ti giudicano male se oltrepassi dei territori definiti. Un po’ per provincialismo, un po’ perché il mercato è piccolo e la competitività alta”.
Prende in mano il microfono e non si ferma più. L’intervistatrice al suo fianco fatica a fermarlo per rivolgergli qualche domanda. La sala piena (tante persone in piedi) è tutta per lui. Curiosa di conoscerlo personalmente e di sentire dove porterà questo nuovo romanzo.
E Fabio l’accontenta subito, parlando quindi di cosa racconta “Il tempo che vorrei”.
A differenza dei lavori precedenti, questo romanzo non si concentra solo su una storia d’amore tra un uomo e una donna, ma parla anche del rapporto tra un padre ed un figlio che per anni non sono riusciti a comunicare, e di quanto dalla mancanza di tenerezza possano scaturire dinamiche difficili da gestire nelle relazioni sentimentali .
Il protagonista del romanzo viene da una famiglia modesta, dove il padre è costretto a lavorare duro per mantenerli. Il suo sacrificio è un gesto d’amore che il figlio, da bambino, non è in grado di interpretare.
Il primo capitolo è raccontato con la voce del protagonista negli anni dell’infanzia. Per lui il padre è un uomo misterioso, con cui non scherza, non gioca, dal quale non riceve dimostrazioni di affetto, né parole d’incontro. Mentre la madre è una complice e una compagna di giochi.
Quando arriva per il padre il tempo della pensione ritrova un figlio adulto, che da una nuova prospettiva riesce a riconoscere l’amore silenzioso che il padre gli ha dedicato durante tutta una vita. Lo sguardo dell’autore cerca di raccontare la difficoltà e il desiderio dei due uomini di recuperare il loro rapporto. Perché come dice giustamente Volo “non si può inventare la vita, la vita è un processo lungo”.
Un uomo che per una vita intera non ha fatto altro che lavorare, senza concedersi mai una tregua, mai un sorriso, il giorno in cui la sua nuova vita di pensionato inizia, scopre di non sapere come vivere. Allo stesso modo un figlio che non ha ricevuto o capito l’amore del padre, non sa come amare una donna.
Così il protagonista attraverso il confronto con il padre cerca di capire e rimediare ai suoi errori sentimentali. Perché l’amore si impara dall’amore. Non si può inventarlo, così come non si può inventare la vita.
Padre e figlio trovano un nuovo territorio per cominciare quel viaggio di conoscenza e scoperta ritardato troppo a lungo. Ci vuole del tempo, ma è un percorso da compiere, anche se costa fatica: “Potrei paragonarlo allo sforzo che compie una larva nel liberarsi dal suo guscio per diventare farfalla. Da fuori vorresti aiutarla, aprire quella gabbia per lei e lasciarla uscire. Ma è quella lotta, quel dimenarsi, che le dà la forza necessaria che le serve poi a volare. Bisogna lasciarla fare da sola, darle il suo tempo”.
Fabio Volo risponde alle domande che gli vengono rivolte dal pubblico con ironia e leggerezza, senza però togliere serietà e consapevolezza alle cose che dice. Che si parli di matrimonio, di figli, di Italia, di lavoro o di viaggi, dietro l’immediata spontaneità c’è sempre il desiderio di condividere riflessioni meditate.
Ovviamente c’è occasione di parlare anche di New York, città da lui cercata ed amata. Quando qualcuno gli chiede perché l’ha scelta, lui risponde che è merito della sua dimensione e delle sue possibilità. New York è una grande metropoli divisa in piccoli quartieri, ognuno dei quali è autosufficiente e offre di tutto. Il suo quartiere è il Greenwich Village. Inoltre New York ha un altro grande merito, la possibilità di vivere liberamente la solitudine, vista come una dimensione intima e privata da dedicare al proprio mondo interiore, ma allo stesso tempo è facile uscirne e incontrare gli altri.
È qui che Fabio ritrova il suo “io”, l’italiano che fa la pasta in casa e la porta ai vicini americani “sempre pronti a chiamare il delivery, e mi considerano uno chef”; quello che vive in uno “studio” così piccolo che “mia nonna lo chiamerebbe stanzino e ci metterebbe le scope”; quello che frequenta tanto italiani che turchi, cinesi, e slavi “perché a New York non c’è differenza tra ‘noi’ e ‘loro’ come invece succede in Italia”. È il Fabio che cerca e trova “il suo posto nel mondo”, perché “non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa che direzione prendere”, dice infine citando Seneca.
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