Raccontare la storia del Maestro Miceli non è facile. Ha calcato così tanti palchi e conosciuto così tanti posti del mondo, che per quanto provi a spiegare il suo percorso, si ha comunque la sensazione di non poter raccogliere efficacemente tutto. È l’aurea di mistero che circonda una professione, o meglio una vita, che in pochi conoscono: quella del concertista.
Attenzione però, ad apporre superficialmente questa etichetta; Stefano Miceli è infatti un pianista, un direttore d’orchestra e un insegnante. Come ci spiega, ha “declinato lo studio del pianoforte in uno stile di vita: vivere con dei parametri che sono artistici, musicali, vedere le persone in un certo modo”.
Nato a Brindisi, attualmente vive a New York, dove svolge con passione e grande generosità il ruolo di direttore del dipartimento musicale della Scuola d’Italia Guglielmo Marconi. A questa attività affianca quella di Visiting Professor in numerose università americane e non solo, e ovviamente i concerti, nella doppia veste di pianista e di direttore d’orchestra.
Tutto ha inizio con una tastiera, “regalata da Babbo Natale” quando aveva 5 anni; da lì il conservatorio, e poi “la molla”: i concerti iniziati a soli 14 anni, che porteranno, pochi anni dopo, a fargli capire che la musica sarebbe stato “uno stile di vita, un’esigenza di voler andare avanti”.
Il fatto di appartenere a una selezione di giovani del conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, dove si trasferisce a 17 anni, fu la spinta decisiva: “Lasciare Brindisi è stato come dire non sono pronto per il grande pubblico, ma se sono arrivato fino qui c’è un motivo”.
A Napoli resterà fino al 2001, studiando piano e composizione. La direzione d’orchestra la studia con Donato Renzetti, all’Accademia Internazionale Pescarese. In totale sono 23 gli anni accademici di studio.
“Quando studi pianoforte, composizione e direzione d’orchestra significa aver fatto delle scelte mirate a costruire una certa unicità”. Nel suo modo di concepire la musica, lo strumento pianoforte coincide con lo strumento direzione d’orchestra. Quello che cerca di insegnare ai suoi studenti è che “ragionando con la testa da musicista si può declinare musicalmente qualsiasi cosa su qualsiasi strumento, con l’abilità di dare attraverso le risorse che lo strumento può dare. Non bisogna essere pianisti davanti al pianoforte, bisogna esser musicisti alla tastiera”.
Nel tentativo di approfondire questo concetto di unicità, il Maestro parte da un quesito: “Cosa significa suonare di fronte a un pubblico? Rispettare la volontà di un autore. Quindi essere fedele alle sue intenzioni, e nello stesso tempo farsi riconoscere, ossia affrontare un autore con una propria identità. Nel mondo della musica, da musicisti, laddove si è solisti o si è leader, non si può essere uguali a nessuno. Ognuno deve riscattare tutto ciò che può dare unicità, con la priorità a sé stessi e alla fedeltà alle intenzioni dell’autore”.
E per fare questo è ovviamente fondamentale arricchire il più possibile la propria personalità dal punto di vista musicale, in modo da poterla tradurre su qualsiasi strumento. “Non a caso i più grandi compositori della storia non hanno scritto per un solo strumento, ma hanno saputo concepire quella personalità musicale, quella creatività, quella struttura, per molteplici strumenti”.
Per chi non è un musicista non è immediato comprendere questo ragionamento. Ma “fortunatamente, tutto ciò che è stato scritto nella storia della musica non è stato scritto con dettaglio scientifico, che indicasse chiaramente la strada d’esecuzione; il mistero della musica è secondo me proprio il fatto che tutto vada ricercato nell’incertezza, nel rapporto che un musicista riesce a creare negli anni con un compositore”.
Tutte le carriere hanno infatti dei compositori di riferimento. E tra i suoi riferimenti il più forte è Franz Liszt, romantico per eccellenza che si è dedicato quasi esclusivamente al pianoforte. Per Miceli costituisce quasi una sintesi tra quello che vorrebbe un direttore d’orchestra e quello che desidera un pianista. Ci confida infatti che uno dei suoi debutti più emozionanti come pianista è stato quello alla Philharmonie Berlin, nel 2011, proprio perché era stato scelto, tra tanti, per celebrare proprio la figura di Liszt. Anche se, sottolinea, “ogni concerto è lavoro, esperienza e cose nuove; c’è sempre un debutto, anche alla sesta volta che si torna in un teatro; anche per le persone che si incontrano in queste occasioni”.
Ovviamente in questo discorso ci si riferisce a quella “molla” di cui sopra che per il maestro è sempre stata l’aspetto fondamentale: il rapporto con il pubblico. D’altronde “perché continua ad esistere la musica colta? Per il magnetismo che produce tra le persone, ossia tra chi la produce e chi la ascolta”.
Con la sua sensibilità è infatti in grado di tracciarne una sorta di profilo: se il pubblico italiano si può definire “aristocratico”, nel senso che è molto critico e non si scompone, il pubblico americano è invece molto più partecipativo. Avendo studiato, suonato, diretto e insegnato in entrambi i Paesi, gli chiediamo di allargare questo parallelismo a più campi. Ci racconta che, terminata l’esperienza alla Catholic University di Washington (per la quale vinse una borsa di studio nel ’97), tornò in Italia un po’ deluso dal punto di vista della formazione accademica, ma sentendosi accresciuto soprattutto da un punto di vista personale.
“Un valore importante negli USA per uno studente non è tanto la qualità della formazione, quanto il mondo in cui vive accademicamente. Studiare pianoforte qua si può fare all’università. È una scelta esclusiva, che non ha alternative, che ti spinge a puntare al meglio; e poi c’è un respiro di dialogo tra le arti molto più ampio. Qui si fa il CFA- College of Fine Arts, dove studi danza, musica, teatro, spettacolo, cinema”.
E in Italia? “Il mondo della formazione musicale è sempre rimasto parallelo a quello della scuola classica. I direttori d’orchestra o dirigono opera, o dirigono balletto. Sono due mondi diversi. È una cosa tutta italiana, (New York ne è l’esempio perfetto con il Lincoln Center, dove balletto, opera e sinfonico sono tutti assieme), ma anche in Germania, a Lipsia fanno diversamente. L’Italia è il paese dell’opera, è normale che questo dialogo non ci sia stato, è una dinamica storica”.
Sarà proprio l’esperienza a Washington a lasciare in Miceli quel bisogno di internazionalizzazione che lo porterà, col suo talento, a calcare i palchi più prestigiosi al mondo: dalla Carnegie Hall di New York alla Gewandhaus di Lipsia, dalla Sydney Opera House all’Orchestra del Teatro alla scala di Milano, dalla Forbidden City Concert Hall di Pechino al Teatro Massimo Bellini di Catania, la Berliner Philharmonie, e molti altri.
Nel 2015 il Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella lo chiama a dirigere l’orchestra della Saigon Opera House in occasione della prima visita di Stato in Vietnam.
Anche il lavoro di insegnante gli ha regalato esperienze molto forti. Nel 2008 fu infatti invitato a tenere delle lezioni presso l’Orchestra Sinfonica Simón Bolívar, orchestra giovanile nata grazie a El sistema, un sistema di educazione musicale pubblica, fondato nel 1975 da José Antonio Anselmi, direttore d’orchestra che diverrà Ministro della Cultura in Venezuela nel 1983. Colpito dalla professionalità e dal talento di questi bambini, due anni dopo Miceli li portò in Italia: 149 ragazzini che fecero 8 concerti per tutto il Paese. “Quando in un’esperienza come questa hai modo di incontrare dei giovani, e la loro emotività, il loro bisogno di significare qualcosa come persone, e tutto questo diventa l’identità di un’orchestra, riesci a chiudere un cerchio rispetto a ciò che vuole essere un esempio di una carriera, il momento in cui ti chiedi: perché faccio il concertista? Perché mi piace, perché è il mio stile di vita, ma soprattutto perché voglio dare qualcosa”.
Sicuramente questo è l’intento che sta anche alla base del suo nuovo disco. “La discografia oggi rappresenta qualcosa di diverso nella carriera di un musicista, perché può essere un valore aggiunto, ma non qualcosa di indispensabile”, spiega. “È un prodotto che ho voluto fare per me. È un percorso stilistico su un capitolo preciso della storia del pianoforte, la forma sonata, dalla nascita a quella che oggi siamo più abituati a sentire, più commercializzata, ossia quella di Mozart e Beethoven. Dal punto di vista pianistico non è per niente virtuosistica, però ha un valore culturale, ricorda un momento storico in cui Napoli era la New York o la Berlino odierna”.
Ovviamente le scelte non sono casuali. “Ho scelto Cimarosa perché ho studiato a Napoli con Carlo Bruno, che insieme al suo maestro Vincenzo Vitale, considerato il caposcuola pianistico in Italia, è quello che ha riscoperto, rieditato e rivisitato in chiave moderna queste sonate, che sono molto sconosciute nel mondo. Partendo dalla mia scuola, dai miei maestri, dall’Italia, voleva essere la chiusura di un cerchio di un filone pianistico, che si sposa con l’idea di portare con questo cd una testimonianza della prima forma sonata”. Un percorso storico, musicale e personale, dunque.
In conclusione, ci resta una curiosità. Partendo dall’affermazione di Duke Ellington secondo cui “ci sono due tipi di musica: la buona musica e tutto il resto”, glielo chiediamo: è d’accordo? “Concordo”, afferma sicuro. “La prospettiva di un musicista è sempre molto critica. Noi parliamo genericamente di musica classica per riferirci alla musica colta. Ma di fatto, ogni musica, di qualsiasi genere, se fatta bene, è colta. Artisti come Michael Jackson, John Lennon, Ray Charles, hanno fatto musica che arriva, con la sua struttura. Mozart è considerato un compositore molto difficile da interpretare, non perché fosse complesso nella struttura, ma anzi, proprio per la sua semplicità. Dove c’è semplicità del messaggio, c’è musica fatta bene”.
Ed è molto chiaro su cosa intende per musica fatta bene: “Che abbia una struttura completa. Alla base di un musicista non c’è mai l'improvvisazione. Devi conoscere una struttura per cambiarla”.
Quindi Miceli, pur proveniente dalla musica colta, non ha alcuno snobismo per altri generi musicali. “Per determinismo storico sono convinto che un domani ci saranno dei musicisti di nuova generazione, che io magari non conosco, che avranno la stessa arte comunicativa”.
E con questa chiosa ci salutiamo, lasciandoci con la sensazione di essere stati per un giorno suoi allievi.