"La Befana vien di notte con le scarpe tutte rotte”. Ancora un giorno d’incanto per tanti bambini, tenerezza d’infanzia che costringe i sogni a viaggiare. Al risveglio l’attesa sorpresa nascosta in una calza.
Filastrocca antica che quest’anno sembra raccontare agli adulti il tempo della crisi, simbolica del quotidiano squilibrio economico. Squilibrio economico che per tanti, troppi, fa della notte della Befana una “notte” che non passa in questo tempo di scarpe rotte. Ma se nella calza delle attese adulte, nella calza delle nostre speranze potessimo trovare un nuovo slancio spirituale capace di contrastare la pesantezza del solo pensiero materiale e illuminare i potenti della terra affinché comprendano che vale l’uomo più del potere. Se ognuno scoprisse, benché le difficoltà presenti, la solidarietà come regime, la compassione come struttura, l’amore come meta, allora potrebbe darsi che la Befana consegni la speranza di una nuova avventura capace di rinnovare la società nel suo tessuto profondo, al suo interno.
Speranza per riagguantare alla vita normale anche quanti ormai sono stati fatti fuori dalla dittatura del mercato, a condizione però che anche i meno fortunati, quelli considerati poveri e spesso poveri non sono perché miserabili, mettano fine all’autocommiserazione e a quell’ostentare lo stato di miseria usato come moneta di scambio, come rivendicazione parassitaria di diritti senza doveri, togliendo aria a chi per dignità di lotta ne ha più diritto. Il rischio è non capire.
Aiutare chi soffre è sempre un atto di giustizia, di carità. Povertà o miseria, cosa cambia? Sembrano essere percorsi uguali, stesse storie di limite, esperienze di varia e dolorosa sopravvivenza chiuse in due apparenti sinonimi che dicono disagio, stento, precarietà. Eppure, il suono delle due parole avvolge significati diversi, che possono avere la forza di una verità difficile da comprendere.
Una verità scandalosa, perché la parola povertà non solo descrive un limite, ma dice protesta coraggiosa contro chi è causa dell’ingiustizia, originata da un eccesso di ricchezzae di abbondanza altrove. La parola miseria, invece, sembra piuttosto indicare un ripiegarsi rassegnati su se stessi di chi si lascia schiacciare dalla propria condizione disperata e, diventandone complice, rifiuta di lottare per il proprio riscatto. Povero è chi non ha, ma potrebbe liberarsi dall’indigenza se messo nelle condizioni di farlo. La sua protesta è il principio di sfondamento del male, è inizio di riscatto.
Un povero che grida aiuto va ascoltato nella sua richiesta, ma soprattutto va incoraggiato nella sua protesta. Così inizia la sua liberazione. Il povero non stende la mano, non chiede la carità. Pretende giustizia. E se accetta aiuto, spera di poterlo ricambiare in tempi migliori. La miseria ha altra faccia, perfora il cuore e disarma la speranza. Può diventare perfino condizione di ricatto che indebolisce ogni azione di ripristino dell’equità.
Sarebbe facile, in via di principio, aiutare un povero, basterebbe che l’abbondanza degli uni supplisse alla mancanza degli altri. È cosa molto più seria, invece, riconsegnare alla vita chi è nella miseria. Per questo Napoli, la mia città, non riesce a prendere le distanze dai miserabili, anzi li ha consacrati primi attori dell’emergenza infinita e ha più di un problema da affrontare: quello culturale ancor prima di quello economico.
Il povero ha bisogno di mezzi per una nuova vita, il miserabile ha bisogno di una nuova vita per poter dare il giusto valore alle cose. Napoli deve darsi, allora, un nuovo patto valoriale che sappia ripristinare la giustizia sociale come via di liberazione dalla povertà e per poterlo fare è necessario superare l’antico retaggio che vuole sempre vincenti i lazzari e mortificata la gente perbene.
Grande responsabilità per quelli che la governano e non solo. Non so se fuori alle nostre chiese ci siano più poveri o più miserabili. Mi viene da pensare che a stendere la mano siano sempre gli stessi, per anni. Ricordo che Madre Teresa, quando la incontrai a Calcutta, mi disse: “Se un povero ti chiede un pezzo di pane sii pronto a donarglielo, ma poi permettigli di guadagnarselo”.
* Gennaro Matino è docente di Teologia pastorale. Insegna Storia del cristianesimo. Editorialista di Avvenire e Il Mattino. Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread”