La tragedia del crollo del ponte “Morandi” del 14 agosto 2018 ci mostra una lunga serie di anomalie, verificatesi sin dall’inizio della vicenda e protrattesi fino ad oggi. Eccole in sintesi:
La scelta progettuale dell’Ing. Morandi. Nel 1963 il ponte stesso costituì una scelta progettuale assai innovativa (uso di calcestruzzo armato precompresso per l’impalcato e cemento armato ordinario per le torri e le pile), un’anomalia rispetto alle soluzioni tradizionali per ponti strallati. Ciò provocò un vivace dibattito a livello scientifico e una notevole popolarità al suo progettista. Ogni soluzione innovativa, che all’epoca fu accettata ed anzi magnificata, si porta inevitabilmente con sé un margine ineliminabile di incertezza e di rischio, di cui sarebbe bene esser consapevoli per poter agire di conseguenza.
Il vizio della memoria. Il crollo di un ponte è un evento eccezionale, ma non è l’unica tragedia italiana degli ultimi anni che ci ha esposto all’internazionale ludibrio perché non devono e non possono accadere in un paese moderno che è fra le prime 10 potenze economiche mondiali: ci siamo forse dimenticati del rogo della Moby Prince a Livorno (1991), del crollo della scuola di S. Giuliano di Puglia (2002) e del naufragio della Costa Concordia al Giglio (2012)? In realtà l’elenco di opere pubbliche crollate in Italia è alquanto lungo e tragico: negli ultimi 5 anni almeno sette sono i crolli di ponti e opere similari, la cui gestione faceva carico a più enti pubblici: dunque ogni livello istituzionale possiamo dire sia stato coinvolto in crolli presuntivamente dipendenti da incuria.
La chiusura o la sottoposizione a ispezione di ponti dello stesso progettista. L’onda emotiva che è seguita dall’improvvido crollo del ponte di Genova ha spinto addirittura alcune amministrazioni pubbliche a chiudere in via precauzionale al traffico ponti finora solo oggetto di monitoraggio (es. ponte Morandi di Benevento), ovvero a sottoporre a controlli straordinari (es. il ponte Vespucci di Firenze). Non è ben comprensibile se tali misure sono dettate da sentimenti irrazionali oppure dalla sopravvenuta consapevolezza della necessità di seguire puntualmente (anche in modo più prudenziale) le raccomandazioni degli esperti del settore, in omaggio al principio della superiorità della scienza sul fato.
L’evidenza oggettiva dei fatti quale metodo per la ricerca dei responsabili. Sempre la contrapposizione tra scienza ed emotività segna il dibattito sull’individuazione dei responsabili del crollo del ponte di Genova, anzi sulle cause del crollo. Nell’immediatezza del fatto, in particolare uno dei viceministri e il ministro delle infrastrutture, seguiti a ruota dall’altro viceministro e dal Presidente del Consiglio dei ministri sia pur con contenuti – il primo - e toni – il secondo – meno eclatanti, hanno senza mezzi termini sentenziato sia in riferimento alle cause del crollo del ponte (evidente mancata manutenzione) che dei responsabili (gli amministratori della concessionaria società Autostrade per l’Italia – ASPI, ma soprattutto la famiglia Benetton, definita “disumana”, che attraverso Atlantia Spa controlla ASPI). Il tutto, si badi bene, sarebbe motivato sulla base della asserita “oggettiva evidenza” dei fatti. In realtà l’evidenza e l’oggettività stanno nel crollo del 14 agosto e nei danni a persone e cose, cioè nell’evento, ma non nell’azione od omissione che l’avrebbero determinato, né tanto meno nel nesso di causalità. Parimenti impregiudicato è al momento l’elemento psicologico (dolo o colpa). Dunque mancano al momento 3 dei 4 elementi costitutivi della responsabilità.
La prevalenza del giudizio degli incompetenti su quello degli esperti. Dopo oltre due settimane dal fatto nessun ingegnere strutturista (né della società Autostrade, né del Ministero delle Infrastrutture, né nessun docente universitario o altrimenti esperto del settore) ha potuto affermare quale sia la causa del cedimento del ponte. Di converso, tutti coloro che non possono definirsi “esperti” hanno affermato (in televisione, alla radio, sui social network) che il nesso causale non può che consistere nella mancata manutenzione a cui era tenuta la società Autostrade in virtù dell’atto concessorio (altrettanto evidentemente da ricondurre ad un inconfessabile intreccio affaristico-politico). Invece, l’individuazione delle cause è essenziale per ripartire le responsabilità tra lo Stato italiano (proprietario del bene, che lo fece progettare e costruire, e che infine l’ha affidato in concessione alla società Autostrade) e la società concessionaria e/o eventuali terzi. Non deve infatti dimenticarsi che, in astratto e in concreto, dal punto di vista giuridico l’ente concedente ha un obbligo di controllo del concessionario, sul quale incombono tutti gli oneri manutentivi e di custodia.
Un disastro annunciato. Era fatto notorio sin dalla sua realizzazione che la soluzione progettuale non si fosse dimostrata indovinata, tanto che il ponte ha mostrato una obsolescenza assai spiccata con conseguenti obblighi di manutenzione ben superiori a quanto accade normalmente. L’inadeguatezza funzionale del ponte è stata oggetto negli ultimi anni di ampio dibattito, con la contrapposizione tra coloro che ritenevano indispensabile ed indifferibile la realizzazione di una viabilità alternativa (la cd. Gronda) e chi invece riteneva che il pericolo imminente del crollo del ponte fosse la solita “favoletta” raccontata dai “poteri forti” per giustificare una nuova opera infrastrutturale che sarebbe stata occasione di sperpero di denaro pubblico e corruzione. E’ alquanto singolare che siano adesso esponenti della stessa forza politica che aveva teorizzato la “favoletta” (in un articolo sul sito del fondatore del movimento, peraltro genovese, prontamente rimosso dal blog appena dopo la tragedia) ad invocare rimedi di giustizia sommaria e additare di “vergogna” la società Autostrade e le altre forze politiche che negli anni hanno ricevuto finanziamenti elettorali da parte della famiglia Benetton.
Il prender decisioni al buio. Per di più l’azione del Governo pare, a tacer d’altro, quanto meno ondivaga, mentre di fronte a tragedie di questo genere occorrerebbe avere la mente lucida e la mano ferma. Nell’immediatezza del fatto, come abbiamo ricordato, i due Viceministri, il Ministro delle Infrastrutture e il presidente del Consiglio dei Ministri hanno affermato essere “oggettiva” ed “evidente” la grave responsabilità della società concessionaria per aver violato gli obblighi di manutenzione dedotti nel contratto di concessione del 2008 e che pertanto la “revoca” della concessione ad Autostrade per l’Italia era un atto dovuto, ineludibile anche per rispetto ai morti e all’interesse pubblico nazionale alla sicurezza nei trasporti. Addirittura il Ministro alle Infrastrutture afferma perentoriamente che come prima cosa sarà revocata la concessione e poi si leggeranno le “carte”. Aggiunge e ripete più volte tra il 14, il 15 e il 16 agosto il Vicepresidente del consiglio “La nostra intenzione è revocare la concessione ad Autostrade per l'Italia. Chi non vuole revocare le concessioni ad Autostrade deve passare sul mio cadavere. C'è una volontà politica chiara”. Dunque i fatti sono enunciati come evidenti, la decisione è già presa, manca solo di mettere nero su bianco, anche se non si chiarisce se la decisione politica di revocare la concessione ad Autostrade per l’Italia si riferisca solo all’A10 (nel cui ambito si è verificato il crollo del ponte) oppure a tutte le concessioni autostradali gestite da ASPI (come se ne dovrebbe dedurre necessariamente in considerazione del drastico giudizio sull’affidabilità della società concessionaria). La domanda non è di poco conto, considerato che ASPI gestisce in regime di concessione 19 tratte autostradali italiane per complessivi quasi 3.000 km di reti, circa la metà della rete autostradale italiana. L’incertezza che ne deriva non è una sanzione prevista dalla legge, anzi pare funzionale solo a gettare discredito sulla società concessionaria e sulla sua controllante (principalmente sul suo principale azionista).
L’aporia tra asserita evidenza dei fatti e la loro ricostruzione in contraddittorio. Sono evidenti le contraddizioni tra quanto dichiarato dal Governo ai media e sui social network, e gli atti formali assunti. Infatti, gli atti formali consistono nella nomina di una commissione ministeriale di esperti per “accertare” le cause del crollo, e la lettera scritta dal Ministero ad ASPI è una comunicazione di avvio del procedimento (senza che sia precisamente specificato quello che potrebbe essere l’esito finale) con contestazione di gravissimo inadempimento agli obblighi di manutenzione e custodia, con invito a fornire controdeduzioni entro 15 giorni”.
Il Governo italiano è parte lesa o corresponsabile? Il 1° settembre ASPI ha inviato al Governo la nota di controdeduzioni, nella quale ha riaffermato di aver svolto con la massima diligenza e tempestività tutte le verifiche e manutenzioni sul ponte Morandi, anzi andando ben oltre quelli che sono gli obblighi di legge e facendosi assistere dagli istituti di settore più accreditati a livello internazionale. Inoltre, non passa giorno che la stampa dia notizia di comunicazioni inviate da ASPI al Ministero circa la doverosità di interventi manutentivi (senza però, pare, che fosse riferito come imminente il crollo). Quanto ha inciso causalmente tale comportamento ministeriale? Ed inoltre, che accadrebbe se, ad esempio, dalla documentazione versata da ASPI e dalle risultanze della Commissione ministeriale d’inchiesta risultasse che sulla base della miglior scienza ed esperienza al momento disponibile non era ragionevolmente prevedibile il crollo immediato del ponte Morandi? Per passare dagli effetti civili ed amministrativi a quelli penali, il Ministro delle infrastrutture ha da subito manifestato l’intenzione di costituirsi parte civile quale parte lesa: staremo a vedere se ciò sarà possibile perché, proprio in considerazione della notorietà della fragilità del ponte Morandi e dei poteri di sorveglianza attribuiti al Ministero concedente, non è affatto scontato che la posizione dedicata ad esponenti ministeriali sia quella di parte lesa piuttosto che quella ben più scomoda di coimputata.
Il crollo del titolo in borsa. A causa delle citate improvvide dichiarazioni dei principali esponenti del governo, il titolo di Atlantia Spa (che controlla Autostrade per l’Italia Spa) in un solo giorno ha perso il 25% del valore in borsa, circa 5 miliardi di capitalizzazione. Su ciò sta indagando la Consob, che pare abbia consigliato informalmente all’Esecutivo una maggiore continenza espositiva. Ed inoltre, il 22 agosto il CdA di Atlantia ha deliberato di valutare gli effetti delle continue esternazioni e della diffusione delle notizie sulla società, avendo riguardo al suo status di società quotata in borsa. Siamo sicuri che il crollo finanziario di Atlantia e conseguentemente di ASPI corrisponda ad un interesse pubblico? E’ legittimo dubitarne, per usare un eufemismo.
L’affidamento dei lavori di ricostruzione “a modo nostro”. Riguardo al da farsi, almeno a parole la posizione dell’Esecutivo pare assai chiara e ferma: ricostruzione del ponte con i soldi di ASPI, ma non da parte di ASPI (che si sarebbe dimostrata inaffidabile), bensì di Fincantieri. Ma anche qui la fretta non pare aver portato buoni consigli. Infatti per la ricostruzione del ponte di Genova, il Codice dei contratti pubblici rende necessario lo svolgimento di una procedura di gara “europea”, mentre un affidamento “diretto” sarebbe possibile solo in favore di una cd. società “in house” del Ministero (Fincantieri non risponde a queste caratteristiche). I tempi non sono brevissimi e soprattutto il nome dell’aggiudicatario non è predefinibile a priori, come in ogni gara degna di questo nome.
La sottovalutazione dell’importanza di accertare le cause del crollo. La disciplina della patologia nell’esecuzione del contratto prevede 4 diverse fattispecie (decadenza, revoca, recesso, risoluzione) aventi diversi presupposti e diverse conseguenze. Nel caso in cui venga accertata la responsabilità di ASPI, pare potersi procedere alla dichiarazione di decadenza, mentre nel caso in cui lo scioglimento del rapporto concessorio prescinda dalle gravi responsabilità del concessionario deve essergli corrisposto un congruo indennizzo (le prime stime ufficiose parlano di circa 20 miliardi di euro, vale a dire il valore di una legge finanziaria). Tali diverse ipotesi sono comunque accumunate da un dato: il provvedimento amministrativo deve essere preceduto da una adeguata istruttoria (da condursi in contraddittorio) e deve essere sorretto da una congrua motivazione delle ragioni in fatto e in diritto. Questi passaggi procedimentali devono essere effettivi, non ridotti a vuoto simulacro formale. Ed infatti in tal senso dispone il contratto di concessione tra ministero e ASPI. Ogni scorciatoia renderebbe l’atto annullabile dal Giudice amministrativo ed esporrebbe lo Stato a una significativa azione risarcitoria. Come è intuitivo, tutti elementi che dovrebbero consigliare l’attenta analisi della fattispecie dal punto di vista tecnico, giuridico ed economico. Ma non pare questa la strada imboccata e anzi, proprio in ragione della perentorietà delle affermazioni sui media e sui social network dei membri del Governo, non è peregrino ipotizzare che se il Governo confermerà tali dichiarazioni con atti formali, la difesa di ASPI si fonderà anche sul pregiudizio ideologico (anziché sulla motivazione preceduta da una reale ed adeguata istruttoria) di un atto caducatorio della concessione, espressione di una decisione presa sin dal giorno del crollo e a cui il procedimento in contraddittorio ha solo svolto la funzione di foglia di fico.
Le impazienze della politica. Nella conferenza stampa successiva alla riunione di ferragosto del Consiglio dei Ministri, il Premier dichiarava con tono ieratico “non possiamo attendere i tempi della giustizia penale!”. L’espressione è particolarmente infelice, soprattutto se pronunciata da un docente ordinario di diritto. Presa alla lettera, essa è un errore bello e buono: l’autorità amministrativa, per di più se concedente, non solo non “può” ma neppure “deve” aspettare l’eventuale sentenza di ultimo grado circa le responsabilità penali (così come quelle della Giustizia civile) perché i provvedimenti amministrativi hanno la caratteristica di essere esecutivi ed esecutori, come si legge in ogni manuale di diritto amministrativo: cioè hanno la capacità di produrre effetti e di essere portati ad esecuzione dalla stessa PA emanante. Anche in ciò consiste il “potere di supremazia” della PA verso i cittadini, che – loro sì – devono invocare ed attendere il giudizio della magistratura amministrativa se intendono reagire. In altre parole, un eventuale provvedimento di revoca produrrebbe immediatamente i suoi effetti caducatori e sarebbe onere di ASPI di impugnarlo per chiederne la sospensione e l’annullamento (che deve essere positivamente statuita dal Giudice Amministrativo). Se invece con essa si vuole intendere, come parrebbe dal contesto, che l’”avvocato degli italiani” e il “Governo del cambiamento” non possono star dietro al rispetto del diritto quando si tratta di questioni di tale gravità, essa è molto più che un errore perché esprime l’idea che il rispetto delle regole sia un inutile orpello che danneggia le vittime e beneficia i responsabili (individuati in base allo “spirito del popolo”, di cui ovviamente l’attuale Governo si sente unico ed autentico interprete).
Le impazienze della Pubblica accusa. Ovviamente non poteva mancare l’intervento della locale Procura della Repubblica. Il Procuratore capo non si limitava a informare i media circa la doverosa apertura di un’indagine penale, bensì già il 15 agosto affermava che “non è stata una fatalità ma un errore umano” e il 18 agosto non riusciva a trattenersi dall’esternare che “lo Stato è espropriato dai suoi poteri (…), è diventato una sorta di proprietario assenteista che ha abdicato al ruolo di garante della sicurezza (…). Il concessionario è come se fosse diventato il padrone delle autostrade” quindi “ha maggiori poteri” e “quindi ha maggiori responsabilità (…). Ho qualche difficoltà ad accettare l’idea che il tema della sicurezza pubblica stradale sia rimesso nelle mani dei privati”. Affermazioni probabilmente dettate dall’euforia di trovarsi circondato dai microfoni dei giornalisti, dunque di carattere emozionale e non razionale, ma il tema, nemmeno a dirlo, veniva subito ripreso dal principale partito di governo nella vulgata “nazionalizziamo le autostrade” (che sia detto per inciso, detta così è l’ennesima sciocchezza perché il servizio autostradale è già gestito dallo Stato, che ha liberamente scelto il sistema della concessione a terzi). Orbene, l’esigenza di ben declinare il rapporto tra l’informazione come dovere d’ufficio del PM e la riservatezza come condotta permeante l’intera azione del PM. Ecco, cosa c’entrino tali affermazioni del Procuratore capo di Genova sulle scelte di indirizzo politico-economiche fondamentali, di competenza di Governo e Parlamento, con il dovere di informare il pubblico è tema di non facile comprensione, al pari della oramai quotidiana cronaca dell’andamento delle operazioni peritali che un collegio di tecnici sta facendo su incarico della stessa procura. Il rischio che dal dovere di informazione si passi alla spettacolarizzazione è sempre in agguato.
Il vizio della demagogia. Purtroppo, come già detto, in questa situazione sia i politici che i magistrati del pubblico ministero pare che non abbiano intenzione di attendere l’accertamento delle responsabilità ed abbiano invece fretta di dare in pasto alla piazza dei presunti colpevoli. Pare di essere di fronte all’ennesimo episodio in cui per necessità politica e/o per vanità mediatica si cerca un capro espiatorio per comunicare agli elettori che si è risolto assai rapidamente - in apparenza – ogni problema derivante dal crollo del ponte. Dal punto di vista culturale, prima che politico, le responsabilità vanno sicuramente cercate fra coloro che potrebbero eventualmente aver contribuito a costruire un clima di lassismo nella gestione e supervisione con criteri di prevenzione e precauzione, ma anche tra chi – proprio in riferimento al ponte Morandi – pur di cavalcare l’onda demagogica non esitava a definire una “favoletta” il pericolo immediato di crollo del ponte. Ma di ciò non bisogna meravigliarsi più di tanto, perché in qualsiasi Paese dove succedesse una tragedia di tali dimensioni tutto ciò sarebbe inevitabile. Le parole in libertà sui social network e sulla stampa sono inevitabili. La vera anomalia è che coloro che dovrebbero, per dovere istituzionale e costituzionale, tenere la barra dritta sulla ragione e sul diritto invece sono proprio coloro che soffiano sul fuoco dell’emotività e dell’idea che lo stato di diritto sia solo un inutile orpello.
*Marco Mariani è un avvocato con studio in Firenze e Roma. Abilitato all’esercizio dinanzi alle giurisdizioni superiori. Docente universitario a contratto in Diritto dei servizi pubblici. Ha curato 23 volumi di contenuto giuridico e pubblicato 50 articoli su riviste giuridiche. È stato relatore in oltre 100 occasioni tra convegni, seminari e corsi (www.cattemariani.com).