ROMA - “Volevamo braccia, sono arrivati uomini”, questa l’emblematica frase di Max Frisch che – a testimonianza del ‘clima’ che ha accolto gli italiani emigrati all’estero tra Otto e Novecento – apre il Catalogo della mostra fotografica “Mattmark, Tragedia nella Montagna”, il primo degli eventi legati alle celebrazioni commemorative per il 50° anniversario della Catastrofe avvenuta nel 1965, e promosse dal Comites Vallese, dall’Associazione ItaliaVallese e dal Comitato ad hoc “Mattmark 1965-2015”. Un catalogo rigorosamente trilingue – tedesca, francese e italiana – per una mostra commemorativa inaugurata nei giorni scorsi presso la Sala degli Atti Parlamentari della Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini” che ci immerge in una tragica pagina dell’Emigrazione italiana e delle migrazioni tout court, tragedie della montagna ieri, tragedie del mare oggi, nell’eclissi di ogni Pietas. Scorrono, a richiamare l’urgenza della Memoria, le immagini di una Mostra-racconto che ci riguarda: lo studio del progetto della diga, il ghiacciaio dell’Allalin e il sottostante lago di Mattmark, la benedizione, la conferenza stampa che annuncia l’inizio dei lavori di costruzione, il cantiere al lavoro di notte. Lo struggente racconto per immagini procede con la festa alla fine dei lavori e l’inaugurazione ufficiale, secondo la liturgia del Rito propiziatorio.
Seguono immagini con operai che ci guardano, sorridenti, dai loro enormi camion per il trasporto pesante. E’ l’Innocenza contro la Morte, in quei sorrisi di uomini al lavoro. Epperciò risulta tanto più stridente e straniante quella didascalia: “La vigilia della catastrofe. Da sinistra a destra: Giancarlo Acquis, Merlin da Meano, Augusto Praloran”. Il fotogramma successivo è il silenzio di una distesa infinita di neve. Il Dopo. E’ il 1° settembre 1965. Le fotografie ci restituiscono uomini al lavoro mentre cercano di salvare i compagni sepolti sotto il ghiaccio. Le immagini della mostra/catalogo scorrono: l’immensa massa di neve sul cantiere della diga vista dall’aereo il giorno successivo alla catastrofe lascia sgomenti. Come il Registro dei dispersi, le ricerche dei corpi delle vittime della valanga, gli articoli di giornale di quei giorni: “Non c’è speranza per i sepolti vivi di Mattmark. Solo otto salme dissepolte. Secondo un rapporto delle autorità i ‘dispersi’ sono ottantadue, di cui forse cinquantacinque italiani. Dieci si sono salvati fuggendo sulle montagne. Oggi bombardamenti con ‘bazooka’ contro il ghiacciaio superiore. Il pianto dei compagni di lavoro. Impressionanti racconti dei superstiti e messaggi degli scampati alle famiglie in Italia. ‘Erano tre giorni che la montagna faceva la mossa’ ”. (Corriere della Sera). Dopo, siamo lì con loro, con i sopravvissuti. Con i fermo-immagine delle vedove avvolte nei veli neri del lutto, impietrite mentre stringono rosari. Siamo con gli orfani di Mattmark. In giacca nera. Serissimi. Bambini, e già consapevoli. Seguono le fotografie dei processi, inquietanti. Sono i dolorosi fotogrammi di una tragedia annunciata, sequenze della Storia, la nostra. Perché la tragedia di Mattmark del 30 agosto 1965 resta, ancora oggi, a distanza di 50 anni, un ricordo vivo nella popolazione del Vallese, accomunando nello stesso tragico destino lavoratori migranti e svizzeri. Una sciagura in cui perirono 88 lavoratori di diverse nazionalità di cui 56 italiani. In questo triste numero era presente l’Italia intera, dalle Alpi alla Sicilia.
Erano le 17 e 15 del 30 agosto 1965, quando il tempo si fermò. A 2.120 metri d’altitudine, un
intero costone del ghiacciaio dell’Allalin, nelle Alpi del Vallese, si staccò e precipitò a valle travolgendo il cantiere e seppellendo sotto una montagna di ghiaccio gli operai che stavano lavorando alla costruzione della diga del lago di Mattmark, nella Valle di Saas, una delle infrastrutture più importanti d’Europa. 88 i morti, 56 italiani, 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi ed un apolide. Gli orfani furono 85. “Pochi istanti prima che venisse giù parte del ghiacciaio, istintivamente, le vittime corsero verso le baracche nel vano tentativo di cercare rifugio, ignari che quella massa enorme era diretta proprio verso di loro – annota Toni Ricciardi, Docente all’Università di Ginevra, uno dei massimi studiosi di storia dell’emigrazione italiana in Svizzera -. In pochi secondi le baracche e quanti sperarono di aver trovato in esse riparo furono sepolti sotto oltre 50 metri di ghiaccio, ghiaia e sassi. La fase dei soccorsi fu complessa ed emotivamente molto toccante perché furono gli stessi colleghi di lavoro ad effettuare, insieme all’esercito, il recupero delle salme, o meglio, di ciò che rimase delle stesse. (…)”.
“La gran parte di questi operai aveva lasciato la terra natale per far vivere le loro famiglie – annota Stéphane Marti, responsabile del “Progetto Mattmark 1965-2015”, curatore del catalogo della Mostra -. Questi si erano uniti ai lavoratori svizzeri e con essi avevano imposto a questo universo di ghiaccio, neve e roccia, un’opera titanica di cui non avrebbero mai visto la realizzazione. L’epopea delle grandi costruzioni di dighe deve essere raccontata al mondo moderno che ignora a quale prezzo e con quali sacrifici fu ottenuto il progresso. (…). Le immagini di questo libro richiamano la presenza di questi uomini dove giovani volti esprimono la giusta fierezza di un lavoro compiuto in un mondo dove la scala umana non ha più alcun valore, tra l’immensità della natura e la mostruosità delle macchine. Ma ciò che colpisce in tale contesto è la fraternità che salda tra loro questi ‘operai dell’impossibile’. Essi hanno condiviso un unico destino sul lavoro e nella vita, nella catastrofe e nella morte. La costruzione delle dighe, questa impresa inedita che riuscì a trasportare da una montagna all’altra tanta acqua per quanto il Rodano potesse portare in pianura, è una storia eroica. Il disastro va oltre le stesse parole. Gli enormi camion piegati come giocattoli, le ricerche patetiche e irrisorie nella notte, la confusione, solo i testimoni diretti ne possono parlare. Le parole sobrie d’un pioniere dell’aviazione alpina, Hermann Geiger, venuto con il suo elicottero tra tutte le forze di soccorso, militari, guide, polizia, ambulanze, operai, sottolineano ancora l’impotenza degli uomini di fronte alla smisurata e raccapricciante catastrofe. Ma, più forte di questa calamità, c’è la dignità delle famiglie, delle spose e degli orfani, dei colleghi sopravvissuti. E’ la lezione di questa tragedia. (…). Il crollo del ghiacciaio – conclude Marti – diventa la causa di una rottura più profonda, tra il mondo antico fatto di tradizione e la modernità conquistatrice, tra la pianura dove si trova il denaro, il potere e l’opinione pubblica, e la montagna dove domina la realtà del lavoro, in altri termini, tra il paese d’emigrazione e il paese d’immigrazione”.
La massa di ghiaccio ricoprì come un mostruoso manto bianco uomini, storie, costruzioni, macchinari. Le vittime provenivano dalla provincia di Belluno e da altri centri veneti, da Friuli, Trentino, Emilia, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria (soprattutto da San Giovanni in Fiore), Sicilia e Sardegna. La sciagura avvenne circa un’ora prima della fine del turno diurno (il cantiere a Mattmark non si fermava mai, si lavorava 24 ore su 24 ininterrottamente per 6 giorni a settimana), se fosse accaduta verso l’ora di pranzo, i morti sarebbero stati 600 e la tragedia avrebbe assunto dimensioni abnormi più di quanto accadde. “Cercavamo di trovare compagni ancora in vita… una desolazione che non posso descrivere. Quando vedevo qualcuno in vita, era un miracolo…”, dice tra le lacrime Nereo Mazzari, operaio all’epoca impegnato nei lavori della diga, in una delle toccanti testimonianze del toccante filmato che ha aperto i lavori, elaborato sulla base di documentazione storica e di interviste a persone che hanno vissuto quei momenti direttamente sui luoghi della tragedia, realizzato con la collaborazione di Nicolas Brun.
Sull’eco di quelle parole e sull’applauso dolente di una gremita Aula “Spadolini”, a conferma che quella tragedia è ancora ‘viva’, si accendono le luci per dare inizio ad un pomeriggio molto denso di riflessioni. Ad aprire i lavori il senatore Claudio Micheloni, Presidente del Comitato per le Questioni degli Italiani all’Estero del Senato, assieme al Presidente della Commissione Esteri del Senato Pier Ferdinando Casini, la deputata Valentina Piras della Commissione Lavoro della Camera, il Presidente del Comites Vallese e del Comitato ad hoc per le celebrazioni, Domenico Mesiano, il responsabile esecutivo del Progetto Mattmark 2015, Stephane Marti, e Sandro Cattacin, ordinario di Sociologia dell’Università di Ginevra. Tra i presenti, nella Sala della Biblioteca, anche alcuni dei figli e parenti dei sopravvissuti, autorità locali e tutti i rappresentanti del mondo dell’Associazionismo degli italiani all’estero, nonché l’Ambasciatore svizzero a Roma, Giancarlo Kessler.
Come primo atto dei lavori, il senatore Micheloni ha letto ai presenti il messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel messaggio, il Capo dello Stato ha sottolineato l’importanza di non dimenticare “una delle pagine più drammatiche della storia della nostra emigrazione”, aggiungendo che “oggi come ieri le nostre comunità italiane all’estero si sono integrate nei Paesi che le hanno accolte, contribuendo al loro sviluppo e mantenendo al tempo stesso un forte legame con l’Italia”. Il promotore dell’evento, sen. Micheloni, ha sottolineato che “tutte le celebrazioni di quest’anno sono finanziate da Istituzioni ed Enti etici Vallesani e non è un dettaglio di poco conto. Credo che il nostro dovere sia ricordare e onorare: ricordare è il dovere di cittadini e politici; la storia dell’emigrazione è piena di parole che non ci piacciono: discriminazione, xenofobia, stragi, le migrazioni forzate del dopoguerra. Ricordare non è onorare. Non basta ricordare per onorare la memoria delle vittime. Come farlo? Come ci comportiamo oggi nei confronti degli immigrati? Nel processo Mattmark furono rinviati a giudizio 17 imputati: tutti assolti in primo e secondo grado; le spese processuali furono a carico delle vittime. Una cosa che scandalizzò tutti. E allora mi chiedo: se voglio onorare le vittime, se considero ingiusta la ‘giustizia’ di allora, da senatore e da politico italiano che responsabilità ho dei 300 morti ieri nel Mediterraneo e di tutti gli altri? Abbiamo votato l’abbandono di ‘Mare Nostrum’; siamo pronti a riflettere su questo? Le cose sono complicate, certo, ma come rappresentante degli italiani all’estero devo onorare veramente le vittime, facendo in modo che noi non permettiamo oggi le tragedie degli immigrati”.
Secondo Valentina Paris il caso di Mattmark testimonia come “Sia stato l’uomo a sfidare la natura. L’ha fatto allora, continua a farlo oggi. Compito della politica è riflettere sulle grandi opere da fare, ma anche su come farle per prevenire le tragedie”. Pier Ferdinando Casini ha lodato l’iniziativa promossa dal senatore Micheloni, dichiarando che “Dobbiamo essergli grati anche nei termini politici perché, come ha detto la collega Paris, un Paese che non coltiva la Memoria fa torto a se stesso. Italia e Svizzera hanno intrecciato a lungo le loro vicende, ma è importante sottolineare come la storia dell’emigrazione sia anche la storia costitutiva di un Paese straordinario come la Svizzera che, senza gli italiani, probabilmente oggi sarebbe diverso”. Casini ha poi aggiunto: “E’ necessario parlare di integrazione. Di fronte alle ‘primavere arabe’ non possiamo pensare di costruire muri, ma neanche ad una politica di accoglienza che finirebbe per essere autolesionista. L’integrazione è la chiave”.
In una prospettiva socio-storica, il prof. Sandro Cattacin, ordinario di sociologia all’Università di Ginevra eresponsabile della ricerca storico-sociale sulla Tragedia di Mattmark a cui hanno partecipato Rémi Baudoui, Toni Ricciardi, Irina Radu e Blaise Dupuis “la catastrofe di Mattmark segna indelebilmente la recente storia migratoria della Svizzera. Per la prima volta i migranti muoiono sul luogo di lavoro accanto a lavoratori svizzeri. Data la diversa provenienza delle 88 vittime, questo avvenimento, di portata nazionale, acquista una dimensione internazionale. Sia in Svizzera che in Europa dà inizio al dibattito sulle condizioni umane e sociali delle migrazioni economiche e sulle condizioni di lavoro dei migranti. Nella stessa Svizzera, al di là della polemica pubblica in merito agli errori di gestione commessi nel cantiere, le vittime di Mattmark acquistano lo status di esseri umani, meritevoli di compassione e di ristoro. Improvvisamente la Svizzera scopre i rischi quotidiani che la manodopera straniera corre per la costruzione di un Paese al passo con i tempi. (…). L’obiettivo di questa ricerca è stato duplice: innanzitutto, recuperare il ruolo che la catastrofe ha avuto nella storia della costruzione della Svizzera contemporanea e quindi del suo Stato sociale e, in secondo luogo, quello di restituire la memoria dei fatti, andando oltre la semplice cronaca degli avvenimenti. La prospettiva socio-storica – attraverso l’analisi approfondita di tutto il patrimonio archivistico sulla catastrofe, contestualizzandolo all’interno delle questioni relative alla migrazione, la sicurezza sul lavoro e alle politiche pubbliche – ha fornito la possibilità di ridare a questo tragico avvenimento un posto centrale nella recente storia della Svizzera”.
Riflessioni che si correlano alla prospettiva storica dello studioso Ricciardi, che in “Studi Emigrazione” CSER (n.196, 2014), “Mattmark: l’amara favola dimenticata”, annota: “L’amara favola, così titolò Dino Buzzati l’articolo di commento del ‘Corriere della Sera’ dell’1 settembre 1965 che raccontò la storia di quanto avvenne nel Cantone Vallese, alle pendici del ghiacciaio Allalin, il 30 agosto del 1965. La catastrofe di Mattmark ebbe la stessa risonanza, se non maggiore, di quanto accadde un decennio prima in Belgio a Marcinelle. Come a Charleroi, - dove per la prima volta la televisione e la radio seguirono in diretta i momenti più tragici dell’attesa e del lutto – si recarono sul posto oltre duecento giornalisti svizzeri e corrispondenti da tutto il mondo. Le immagini delle baracche sepolte sotto oltre 2 milioni di metri cubi di ghiaccio e detriti fecero il giro del mondo. Per la Svizzera fu un vero e proprio shock. (…). La catastrofe suscitò scalpore in tutta Europa e rappresenta, ancora oggi, la più grave catastrofe della storia svizzera dell’edilizia. L’opinione pubblica elvetica fu molto scossa dalla tragedia, perché per la prima volta immigrati e svizzeri morirono l’uno a fianco all’altro. Accomunati tutti, senza alcuna differenza, dal dolore e dall’incomprensione per quanto fosse accaduto. (…). Tuttavia, l’elemento che più di ogni altro lascia interdetti – commenta lo storico - è la successiva rimozione, casuale e/o voluta, di questa immane tragedia. Paradossalmente, come Marcinelle e forse anche più della tragedia belga, nonostante le varie fasi (progettazione, catastrofe, inaugurazione, processo) abbiano avuto la giusta attenzione da parte dei media e dell’opinione pubblica, Mattmark è stata rimossa dalla memoria collettiva. L’oblìo nel quale è caduta questa tragica pagina dell’emigrazione italiana, e più in generale della recente storia svizzera, ci fa parlare di Mattmark come di una Marcinelle dimenticata”.
Sulla necessità della Memoria, Domenico Mesiano, co-curatore dellaMostra e Presidente del Comitato per le celebrazioni del 50° Anniversario di Mattmark, ha osservato che “con le celebrazioni in programma quest’anno, il Comitato intende scongiurare l’oblìo su fatti importanti, ma anche discutere, rendere fruibile un patrimonio di conoscenza che stimoli un dibattito sull’integrazione degli stranieri. Oggi, nel Vallese ci sono 18mila italiani, la metà ha la doppia cittadinanza. Anche per questo il Cantone ha scelto l’italianità come uno dei pilastri fondanti del suo patrimonio culturale. Dopo Roma, la Mostra verrà allestita a Sion e altre città del Vallese per arrivare a fine agosto del 2016 a Briga. Sempre all’interno delle scuole, e non a caso, perché dobbiamo far conoscere questa storia ai giovani e con loro parlare di integrazione”. Per il prof. Stéphane Marti, co-curatore della Mostra, responsabile del “Progetto Mattmark 2015” e Presidente della “Fondazione Fellini” “le energie messe per commemorare questa tragedia hanno come scopo quello di creare un memoriale moderno, di ispirazione romana: nel senso che con questo lavoro vogliamo trasmettere la verità alle nuove generazioni” perché “l’oblìo è una seconda morte. Raccontare la verità è un obbligo: abbiamo deciso di farlo attraverso queste foto e le testimonianze del doppio sacrificio delle vittime di allora, emigrare e morire per il progresso di un altro Paese”. Marti ha aggiunto che “la rappresentanza svizzera in Europa porterà questa Mostra nelle sedi dell’Unione europea come omaggio al lavoro italiano”.
Il Senatore Micheloni ha successivamente omaggiato il Presidente Domenico Mesiano con una targa in argento del Senato per il suo pluriennale impegno civile e sociale “che ha permesso di valorizzare al meglio il ruolo della comunità italiana in Vallese – ha dichiarato Micheloni - come testimonia quest’ultima iniziativa sulla tragedia di Mattmark”. Mattmark, la più grande tragedia dei lavoratori italiani in Svizzera che scandalizzò per le sentenze di assoluzione dei responsabili e che colpì l’opinione pubblica, indusse a un doveroso cambio di passo nei rapporti tra autoctoni e immigrati: superando la diffidenza verso lo ‘straniero’, considerato fino ad allora solo come forza-lavoro - che tuttavia contribuiva a importanti processi di modernizzazione del Paese – si innescarono nuovi e inclusivi atteggiamenti di integrazione. Dopo quella catastrofe, maturò un nuovo senso di comunità tra persone di diversa nazionalità e cultura, insieme ad ormai necessarie consapevolezze sia sulla sicurezza nei luoghi di lavoro che sul fondamentale ruolo della politica e delle scelte di governo. Perché così come ieri non fu la Montagna a seppellire lavoratori, oggi non è il Mare a inghiottire migranti, è stato il messaggio più volte emerso durante l’intenso pomeriggio commemorativo.
Sul cambio di ‘visione’ che la tragedia di Mattmark rappresentò, Toni Ricciardi puntualmente osserva che “l’effetto simbolico fu devastante: la Svizzera entrava così nell’immaginario collettivo come un Paese arrogante e crudele. Nel Parlamento italiano le voci critiche lessero la sentenza come una dimostrazione dei pregiudizi elvetici nei confronti della manodopera italiana, che contava più di mille morti nei cantieri elvetici negli anni Sessanta. A conferma dell’inadeguatezza delle misure di sicurezza sul lavoro, l’OIL (Ufficio Internazionale del Lavoro) dimostrò come i livelli di sicurezza, durante tutto il decennio 1960, furono i più bassi dell’intera area OCSE. Infine, nonostante il Governo italiano si dichiarasse pronto a farsi carico delle spese processuali tramite il fondo del consolato per la tutela giuridica costituito presso l’Ambasciata italiana a Berna, la giustizia vallese non prese in considerazione una remissione delle spese a favore delle famiglie delle vittime. Come per il Belgio dopo la sciagura di Marcinelle, le pressioni internazionali produssero effetti anche in Svizzera, con l’istituzione di una Commissione italo-svizzera per la prevenzione degli infortuni nell’edilizia. Inoltre, per la prima volta, le autorità elvetiche interloquirono direttamente con i sindacati italiani e il mondo associativo in emigrazione sui temi della sicurezza sul lavoro e delle assicurazioni sociali. In definitiva, politici, economisti, intellettuali e gente comune trovarono nella tragedia di Mattmark un ulteriore stimolo per approfondire il dibattito, già in corso da alcuni anni, sul senso stesso di uno sviluppo economico pressoché incontrollato che richiedeva sempre più manodopera estera, soprattutto per le grandi opere infrastrutturali (di per sé molto rischiose) e per le attività a bassa intensità di qualifica abbandonate dagli svizzeri (…)”. Corsi e ricorsi storici.
L’attenta analisi di Ricciardi individua altri focus di riflessione socio-storica: “Anche per la collettività italiana in Svizzera la tragedia rappresentò un’occasione per interrogarsi sul senso della propria presenza in un Paese in cui, benché parte attiva e persino determinante del benessere, non si sentiva accettata e corresponsabile, anzi oggetto di discriminazione e ostilità. Questi furono gli anni della svolta e del cambio di prospettiva. Quanto abbia inciso Mattmark (la Marcinelle elvetica) nel rifiuto delle campagne referendarie del 1965, del 1970 e del 1974, non ci è dato sapere. Certamente, però, questa tragedia segnò un momento di cesura nell’arco della lunga storia della presenza italiana in Svizzera”.
Cinquant’anni dopo quella tragedia – sottolinea ancora, a conclusione dei lavori, Marti - il Cantone Vallese iscrive l’italianità all’interno del progetto per la salvaguardia del suo patrimonio immateriale depositato all’UNESCO. Cinquant’anni dopo quella tragedia, 18mila italiani vivono in Vallese e sono riconosciuti come facenti parte integrante della sua identità. Questa diga di Mattmark è dunque molto di più che una grande opera della montagna. E’ un monumento eloquente della nostra storia ed un simbolo che fa di questo luogo quello che già fu nell’antichità: un luogo di passaggio tra l’Italia e la Svizzera, un ponte che unisce e dà continuità alla storia dei nostri due Paesi”. Mattmark, un ‘fatto sociale totale’ che ci invita a guardarci più da vicino, nella duplice prospettiva passata e futura, sollecitando a tutte le latitudini la consapevolezza della complessità dell’essere migranti. Ieri come oggi.