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Tra pochi giorni a New York ci sarà il Summer Fancy Food. Come sempre è un appuntamento molto importante per l’ICE.
Quest’anno si conferma la presenza italiana con circa trecento aziende. E quest’anno oltre a Speciality Food e Universal Marketing, abbiamo al nostro fianco le fiere italiane, Tuttofood, Cibus, Vinitaly, FederAlimentare . Insomma portiamo avanti un vero gioco di squadra.
Vi siete orientati su dei prodotti particolari quest’anno?
Non abbiamo un focus particolare, un settore merceologico piuttosto di un altro, anche perché ci siamo resi conto di un dato, che il Fancy Food di New York è veramente una fiera di grande successo e di grande impegno per tutti quanti. Dunque bbiamo voluto caratterizzare di più la nostra lounge come una lounge di servizio.
Sarà uno spazio per incontri e per networking fra operatori americani, operatori italiani, stampa. Abbiamo deciso di non mettere in programma ulteriori specifiche attività promozionali legate a prodotti.
Però abbiamo degli argomenti importanti che fanno da ombrello, così come stiamo facendo negli ultimi mesi. Tra questi l’innovazione e le startup.
Startup nel mondo dell’agro alimentare?
Si, se ne parlerà al Fancy Food. Infatti anche il settore dell'agroalimentare italiano ha delle startup di punta ed è in grado di portare molta innovazione.
Startup per lo più create da giovani imprenditori… in un mondo di piccole e medie imprese.
Si e loro sono anche il futuro. Questo sarà un po’ l'orientamento che cercheremo di darci nel nostro lavoro come ICE.
Le piccole e medie imprese italiane sono il tessuto del nostro Paese. Il novanta percento degli espositori italiani di Fancy Food è già fatto di piccole medie imprese.
Con le startup parliamo di una categoria particolare delle piccole medie imprese. Di una nicchia della nicchia.
Sono imprese altamente innovative e anche startup. C’è questo programma chiamato 'Global Startup', fortemente voluto dal Governo, che sta partendo anche negli Stati Uniti con diverse iniziative. Per esempio con un bando di gara nel mondo.
Di cosa si tratta?
E stato paragonato all’Erasmus, insomma un Erasmus delle startup. Si tratta di mandare dei giovani appartenenti a startup italiane per un’esperienza all’estero. Quindi di dare a loro un’occasione per crescere anche professionalmente e affrontare meglio il loro percorso di startup. E’ un progetto molto articolato.
Startup, innovazione nel mondo dell’agroalimentare vuol dire anche sostenibilità. Un tema fondamentale.
Appunto noi siamo quello che mangiamo, ma siamo anche il mondo in cui viviamo. In questo senso l'agroalimentare ha una responsabilità, ma anche un’opportunità grandissima.
L’agroalimentare su cui si deve puntare è basato sulla sostenibilità della produzione, sostenibilità della catena distributiva degli imballaggi e lotta al food waste. E’ un impegno per un’alimentazione sana, quindi per una salute migliore. Non c’è altro settore merceologico che possa da solo offrici così tante sfide, ma come si dice in questi casi anche tante opportunità.
Molto spesso quando si pensa all’innovazione, si pensa all'elettronica alla tecnologia, allo spazio alle nuove applicazioni, all’economia digitale, invece probabilmente lo sforzo maggiore che dobbiamo fare è di introdurre sempre più innovazione, sempre più sostenibilità e sempre più responsabilità nel settore agroalimentare.
Un dovere anche verso il nostro Pianeta.
Se mettiamo a posto il settore agroalimentare, da come produciamo a come distribuiamo, a come non sprechiamo e a come ci curiamo attraverso l’alimentazione, noi abbiamo di fatto aiutato il pianeta, aiutato i conti pubblici e anche fatto un’opera diciamo etica tra le più importanti.
E come siamo messi in Italia al riguardo?
L’Italia si presta molto, ha tutte le carte in regola da questo punto di vista. Uno dei nostri limitI, quello della dimensione piccola delle aziende è anche un punto di forza. Tutte queste aziende non sono delle grandi multinazionali con migliaia di dipendenti che possono produrre oggi in un posto domani in un altro, dopodomani in un altro ancora … sono piccole aziende familiari, legate spesso da generazioni - con i piedi, con la testa e con il cuore - al luogo dove lavorano.
Poi sono aziende che spesso producono prodotti che hanno un’indicazione geografica, quindi possono e devono essere prodotti solo in quel territorio.
E da qualche anno sono anche aziende che si sono per così dire ‘ringiovanite’
Sì spesso sono aziende anche giovani, perché abbiamo anche questo fenomeno di ritorno. Giovani che hanno molto a cuore la comunità intesa come aspetto sociale, come aspetto legato al rispetto del territorio, come aspetto connesso alla valorizzazione, all'inclusione. Inclusione di chi per qualche motivo, è rimasto indietro, ha difficoltà, ha bisogno di lavorare e di aiuto.
E l’Italia è il Paese della Dieta Mediterranea.
Con il nostro modello di Dieta Mediterranea abbiamo “the healthiest country”, quindi la migliore opportunità per la nostra salute grazie all’alimentazione. Salute, e va detto, dovuta anche a tanta eccellenza del nostro sistema sanitario.
Un sistema che critichiamo troppo.
Il sistema sanitario italiano, che per l’altro costa infinitamente meno di quello americano, ci assicura una vita media di quasi dieci anni superiore.
Abbiamo una longevità molto elevata, per cui diciamo che siamo in grado di essere anche da questo punto di vista veramente un modello di sostenibilità, d’etica.
E torniamo all’innovazione quasi per chiudere un cerchio
Si, tutto questo passa molto per l’innovazione, passa molto anche per la presenza dei giovani, giovani che tornano in campagna, ma anche per tante startup che inventano sistemi nuovi per valorizzare meglio il lavoro nel settore agroalimentare, per sapere cosa si deve fare, per partire con il piede giusto.
Parliamo di internazionalizzazione, di esportazione. Molte aziende italiane sono al Fancy Food con questo intento. Quali sono gli errori, per così dire i tranelli in cui può cadere un’impresa quando si presenta al mercato estero?
Esportare non significa vendere in un luogo diverso, esportare significa impostare l’azienda, che fa solamente il mercato domestico, in un modo completamente differente.
Se si decide che questo export deve essere negli Stati Uniti occorre fare prima molti ‘compiti a casa'. Soprattutto è meglio non scegliere gli Stati Uniti come primo mercato, ma come mercato d’arrivo.
Occorre cominciare da Paesi relativamente più facili, nell’Unione Europea, anche da un punto di vista normativo di vicinanza di stand tecnici. Poi, quando si ha successo, si va negli USA.
Dunque come vanno affrontati gli Stati Uniti?
Con uno sforzo enorme di inglesizzazione dell’azienda. Con questo intendo dire che, non basta l'export manager o l'ufficio export che parla inglese, l’azienda deve essere completamente organizzata in inglese, quindi tutti i suoi cataloghi, tutta l’etichettatura, il sito web, i social, gli uffici tecnici, gli uffici produzione. Devono tutti quanti essere pronti a interagire in inglese.
Il cliente americano pretenderà di parlare con un ufficio amministrazione o con un ufficio produzione. Vuole trovarsi qualcuno dall’altra parte che lo capisce per sapere come fare una fattura, o come rivedere una ricetta di ingredienti. In base, l’azienda deve essere assolutamente pronta ad affrontare qualsiasi tematica, qualsiasi richiesta in inglese.
E poi è vitale uno storytelling adeguato.
Ci deve essere una grande capacità di raccontarsi, la convinzione che siccome siamo italiani siamo il superpower dell’agroalimentare, e che tutti ci conoscono, è assolutamente errata.
C’è una buona conoscenza dei prodotti italiani, delle nostre specialità alimentari, ma questa è ancora abbastanza limitata e poi molto concentrata in alcune grandi città. Parlo delle metropoli, che per lo più stanno sempre nelle due fasce costiere, quindi: New York, Washington, Miami, San Francisco, Los Angeles, un po a Chicago, negli ultimi tempi un pò in Texas.
Però gli Stati Uniti sono ancora, per così dire, ‘da raggiungere’
Si la conoscenza della nostra eccellenza, delle nostre unicità è ancora molto bassa, le aziende devono essere molto capaci soprattutto, realizzando e utilizzando i canali digitali, di sapersi raccontare soprattutto perché i nostri prodotti normalmente costano di più.
E gli americani sono disposti a pagare di più?
Sì, sono disposti a pagare di più però bisogna che sappiano il perché. Se non siamo in grado di dirlo e convincerli, l’operatore che ci è seduto davanti, in tre minuti finirà l’incontro che è appena iniziato.
L’altro aspetto importantissimo è quello di sapersi organizzare in termini ovviamente di imballaggio e di etichettatura e logistica, perché in molti casi l’importatore negli Stati Uniti fa questa attività, ma le fa per decine e decine di fornitori e per centinaia di prodotti, quindi non sempre con una reale capacità di spinta verso gli utilizzatori finali.
E’ importante che, nell’azienda, si pensi magari non in prima battuta, ma probabilmente in seconda o terza battuta, a potersi organizzare anche con una logistica sempre più efficiente. Anche se si decide di vendere in pochi Stati bisogna essere molto pronti nelle consegne e probabilmente con personale adeguato che faccia attività di marketing e di storytelling, cosa che normalmente in Italia non si fa. Pensare che siccome si è venduto qualche container di prodotti in Svizzera o in Austria e si è pronti per l’America è sbagliato. Non basta mandare l’export manager negli Stati Uniti, e aspettarsi che magari con tre giorni di Fancy Food, si trovi la fila degli importatori americani fuori.
E torniamo alla necessità di innovazione anche in questo caso.
Si l’innovazione, io sono convinto che abbiamo i migliori formaggi, i migliori oli, le migliori paste, il migliore conserve vegetali al mondo, se però si viene qui con un classico prodotto, un imballaggio nella dimensione classica con le caratteristiche classiche, quindi con un’ottima pasta, con un eccellente olio extra vergine di oliva, con un ottimo pomodoro in scatola, dobbiamo sapere che questi prodotti negli Stati Uniti già ci sono.
Pensare quindi di arrivare con l'ennesimo ‘olio d’oliva fatto in quella collina particolare, dove lo facciamo lì da centocinquant’anni, dove mettiamo tanto amore e quindi è il migliore” probabilmente non basta.
Bisogna metterci anche innovazione, che possano essere innovazioni nella aromatizzazioni, innovazioni nel packaging, innovazioni nella facilità di utilizzo. Insomma, il cliente americano è molto curioso, è pronto a pagare differenziali di prezzo ma paga per un prodotto che non sia quello base. Il prodotto di base lo conosce da decenni, lo acquista, continuerà ad acquistarlo - e guarderà spesso il prezzo - del brand a cui si è affezionato.
Dunque bisogna attirare la curiosità e la fantasia degli americani
Si e questa è un’altra cosa che vediamo al Fancy Food, non a caso si chiama “fancy” e non “traditional” food. L’elemento innovazione, di moda, di glamour anche nel food è diventato importante.
Vorrei ritornare alle aziende italiane fondamentalmente familiari. Quali sono oggi i vantaggi e gli svantaggi di un’azienda agroalimentare su base familiare?
Adesso io non faccio nomi, per la mia posizione non li posso fare, però noi abbiamo di esempi di grandissime aziende nate da famiglie.
Li faccio io, Barilla, Colavita, Auricchio, Zanetti…
Ecco. Si potrebbe dire che sono nate in altri momenti, ma io vorrei venire al presente. Sono tutte aziende familiari che hanno dimostrato che la gestione familiare, quando è ben fatta, consente all’azienda di essere anche leader mondiale, di essere un’azienda multi-billion che affronta il mercato in maniera efficacissima.
Secondo me non è un problemai familiare o manageriale, di piccolo o di grande, mai è come sempre un problema di do come è gestita. Se un’azienda è gestita bene, evviva l’azienda familiare. Ma se è un’azienda familiare, dove la grande capacità e DNA, di papà o mamma che l’hanno fondata, non sono stati trasferiti ai figli, oppure i figli litigano tra di loro, oppure non hanno saputo innovarsi e tenersi al passo con i tempi, oppure hanno fatto investimenti sbagliati, oppure non hanno saputo investire in alcuni manager capaci in alcune posizioni, allora non è un problema di azienda familiare, è un problema di cattivo management.
Quindi la famiglia continua ad essere importante?
L’azienda familiare ha nell'agroalimentare alcuni punti di forza, sono quelli che dicevo prima. Soprattutto non è un’azienda che va solo a cercare il profitto dove lo trova, ma che ha una forte radicamento nel luogo dove è stata creata.
Molte di queste aziende sono diventate multinazionali, hanno comprato intere imprese in tutto il mondo, ma ancora quando se pensi a loro le identifichi col luogo dove si sono nate, dove continuano a avere il loro interesse principale.
Un esempio per tutte. Ferrero nella città di Alba in Piemonte.
Nell’agroalimentare dire azienda, famiglia, territorio, vuol dire parlare di un trinomio che è molto più forte che nella tecnologia o altri settori dove pure abbiamo eccellenti esempi.
Ma lo è oggi soprattutto forse per quello che abbiamo detto prima, perché i giovani di queste famiglie hanno studiato magari all’estero conoscono le lingue, hanno preso masters, poi sono tornati nelle loro aziende.
Pensiamo al mondo del vino per esempio. Ci sono ottimi esempi di aziende familiari che hanno gestito molto bene il passaggio generazionale.
Come dicevo c'e' famiglia e famiglia, ma alla fine quello che conta sono le competenze e il buon management.
Poi l’agroalimentare forse uno dei pochi settori dove non bisogna necessariamente essere grandi per avere successo, però bisogna essere comunque essere tra i leader di nicchia. Si può diventare un grande nome internazionale con due milioni di euro di fatturato, ma devi produrre un prodotto veramente speciale, innovativo, diverso e di nicchia.
L’Italia è il paese leader in quasi 250 nicchie globali, alcune nicchie fra l’altro sono nicchie da miliardi di dollari. Quindi, di nuovo, non è fondamentale essere grandi però, se si vuole essere competitivi nel proprio settore, non bisogna avere un prodotto flat come possono avere altre centinaia di aziende - molte delle quali molto più grandi - bisogna differenziarsi e l’innovazione è una delle chiavi del successo.