Siamo nella periferia di Taranto, nel corso di una rapina, uno dei tre complici, Tonino (Sergio Rubini) detto Barboncino approfittando della distrazione degli altri due, ruba tutto il malloppo e scappa. La sua corsa procede verso l’alto, di tetto in tetto fino a raggiungere la terrazza più elevata, per rifugiarsi in un vecchio lavatoio, dove trova uno strano individuo, Renato (Rocco Papaleo), dall’aspetto eccentrico: sostiene di chiamarsi Cervo Nero e di appartenere alla tribù dei Sioux.
Tonino, costretto da un’ immobilità forzata, realizza di essere completamente solo e si rende conto che ha un’unica alternativa, quella, cioè, di allearsi con questo particolare personaggio che si comporta come un pellerossa e che, proprio perché guarda il mondo da un’altra prospettiva, potrà forse fornirgli la chiave per risolvere l’assurda situazione e per cambiare la sua intera esistenza.
“Il grande spirito” è il nuovo film di Sergio Rubini, presentato in anteprima al Bif&st – Bari International Film Festival 2019, prodotto da Fandango e Rai Cinema, e che arriva nella sale il 9 maggio con 01 Distribution.
Sergio Rubini [2], dunque, torna alla regia e, per l’occasione, costruisce un personaggio incredibile per Rocco Papaleo che si dimostra perfetto in un ruolo diverso e inaspettato. In un luogo sospeso, dove i tetti e le ciminiere dell’Ilva in lontananza fanno da scenario, le vite di due uomini si fondono in una strana e folle amicizia: Tonino e Renato sono l'uno l'"uomo del destino" dell'altro perché attraverso il loro rispecchiarsi si accende la loro luce interiore. Un film denso di metafore dove il destino degli Indiani d’America, piegati all’avvento della ferrovia, sembra essere riproposto in chiave moderna nelle difficoltà affrontate da un popolo, quello tarantino, costretto a fare i conti con i ‘mostri d’acciaio’ e dove la spiritualità e l’ascesa (sia fisica che spirituale) funge da catarsi.
Per l’occasione, abbiamo incontrato il regista Sergio Rubini.
Il Grande Spirito, cos’è per te questo film?
Si tratta di una commedia ma con un risvolto amaro perché ha uno scenario, quello di Taranto, che è avvelenato, così come era accaduto per i Sioux e la ferrovia, da mostri d’acciaio. Il personaggio di Renato, interpretato magistralmente da Rocco Papaleo, crede appunto di appartenere agli Indiani d’America che hanno vissuto la pesantezza di certe storie. Si tratta, poi, di una storia di amicizia che ci dice quanto una amicizia possa, in qualche modo, salvarci. E’ una storia di salvezza, un film ottimista con un messaggio positivo, contro il cinismo perché, penso, che un film debba sempre regalare un messaggio. Le persone devono uscire dal cinema e devono chiedersi cosa questo signore (indicando se stesso, n.d.r.) abbia voluto trasmettere.
Guardando il film, emerge una Taranto sullo sfondo. Dunque, pur essendo molto presente la città sei comunque riuscito a rendere il film ‘universale’. Una sorta di spazio-tempo sospesi che rendono il film realizzabile ovunque.
Assolutamente si. Sono contento che emerga il fatto che il film possa non essere collocato in un territorio preciso. E’ anche vero, però, che la storia di Taranto è unica e non si può trovare facilmente in atri posti; vorrei ricordare che Taranto è una delle città più belle d’Italia, è una città con addirittura due mari. Purtroppo, però, così come è capito agli Indiani quando furono devastati dal passaggio della linea della strada ferrata, anche Taranto è devastata dall’acciaio; come accadde agli Indiani, molti sono morti - voglio ricordare, anche, che la percentuale di morti sul lavoro a Taranto è altissima- e, inoltre, molti sono costretti a lavorare con gli Yankees cioè con chi porta loro il male, quindi costretti a lavorare all’Ilva. Questa contraddizione profonda è solo di questa città, indi potevo cambiare tutto del film ma non potevo fare a meno di Taranto.
Come nasce l’idea del film?
Quando ero ragazzino mi piacevano gli Indiani. Mio padre me li aveva raccontati per quelli che erano; nei film dell’epoca gli Indiani erano quelli diversi, cattivi e pericolosi. Mio padre, invece, mi aveva fatto un contro racconto spiegandomi che erano delle vittime, che fossero si diversi ma buoni: gli Indiani avevano un’idea del mondo fantastica, il loro animismo era incredibile, vivevano insieme alla natura e credevano che Dio fosse ovunque. Quindi dalla voglia di raccontare l’ultimo dei Sioux è partita la storia che poi si è unita a Taranto e dopo ho costruito i personaggi. Ho voluto, dunque, raccontare l’incontro di questi ‘ultimi’ così diversi tra loro che potessero anche far sorride e produrre commedia. Tra l’altro ho voluto che il personaggio di Renato lo interpretasse Rocco quasi con dispiacere (sorride, n.d.r.) perché è un ruolo che mi piaceva tantissimo e, inizialmente, avevo pensato di interpretarlo io. Dopo aver incontrato Rocco, però, vedendo il suo entusiasmo ho capito che lui avrebbe potuto farlo benissimo; un comico, poi, può riuscire a fare dei personaggi complessi mettendo in scena tutta la propria umanità.
Il film è stato molto faticoso anche fisicamente. Le arrampicate sui tetti in inverno le abbiamo fatte realmente noi e abbiamo rischiato spesso di cadere e farci male, insomma, è diventata una vera e propria avventura.
La spiritualità di Renato è un espediente per fuggire dagli Yankees, dunque?
Renato, in realtà, non è così dissimile dal quel pensionato di Manduria bullizzato. Il personaggio di Rocco ad un certo punto sale sui tetti e dei ragazzi lo prendono in giro, gli calano i pantaloni, si parte sempre così, con un po’ di bonarietà, e poi il cinismo che abbiamo intorno, che è quello che impariamo dai media, quello che ci sembra fondamentale per vivere la vita, ci porta ad arrivare a quelle brutture e mostruosità. Io credo che questi presunti matti siano portatori di saggezza e che siano i più ragionevoli nel mondo; anche l’idea di Renato, nel film, è quella più ragionevole, il cinismo è perdente e ci aiuta solamente a svoltare il momento e a vivere nel presente ma non ci dà alcuna prospettiva per il futuro.
Tra i premi del festival c’è anche quello dedicato a Fellini, tu hai avuto l’onore di lavorare con il maestro, cosa puoi dirci a riguardo?
Io ho avuto la fortuna di fare questo incontro, così come accade nel mio film nel quale Cervo nero incontra l’Uomo del destino e grazie a questa conoscenza per Tonino cambia la vita. Io avevo 22 anni e ho incontrato l’uomo del destino, Fellini, un personaggio che mi ha accompagnato per tutta la vita. Un maestro, una sorta di angelo, per me si tratta di una cosa molto intima e privata, qualcosa che mi porto dentro, emozionante, indescrivibile e quasi indicibile.
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