SONO sbarcati in tanti, 1449 tra profughi e migranti, uomini, donne, minori non accompagnati da non contare, o meglio accompagnati dalla speranza di farcela o dall’illusione di potercela fare. Uno striscione all’arrivo: Benvenuti a Napoli.
Anche su questo la rete si divide e il “Benvenuto” diventa uno sfottò, un algoritmo, un pretesto per raccontare altro, per far dire alla politica parole di fumo, quelle che durano il tempo di uno spot, senza visione, senza progetto, quelle che si ripetono senza soluzione di continuità, che navigano a vista sull’emergenza che non è più emergenza, ma struttura di sofferenza voluta e alimentata dalla globalizzazione della povertà: “non si può non accogliere”, “meglio aiutarli a casa loro”, “bene il primo soccorso ma poi vanno rispediti a casa”, “disperati che si aggiungeranno al numero dei nostri”. Parole.
Intanto le telecamere acchiappano sguardi di quelle giovani vite che sognano altrove speranza e per il momento godono l’ebrezza di respirare terra, i piedi finalmente ancorati al suolo. Intanto nuovi sbarchi si preparano, altrove o qui, la processione dei giovanissimi continua e continuerà ancora: un milione di disperati attende di imbarcarsi sulle sponde libiche. Ancora ragazzi tra loro, in tanti acchiapperanno l’onda per respirare aria, forse di libertà, o forse ancora più malata, di nuova schiavitù. Schiavi di ieri, schiavi di oggi: la libertà è arte difficile da conquistare, ancor di più da preservare. Schiavitù che rimanda a tempi passati quando in catene, uomini e donne erano costretti a lasciare ogni sostanza di memoria e di affetto e subire ogni angheria da scellerati senza scrupoli che li trattavano da meno che bestie.
Schiavitù che ancora resiste nel tempo delle moderne democrazie, tempo della certezza del diritto che di sicuro è più certo per chi sa usare carta e penna a danno degli ultimi che, privati della loro dignità, non sono più in grado di dare ragione alla loro stessa umanità. I numeri sono un racconto spietato e leggono quello che le telecamere non passano, che gli striscioni non raccontano: tanti di questi ragazzi si perdono, scompaiono nel nulla. Il loro destino dopo poco non interessa più nessuno né alla patria che li ha espulsi, né alle sponde che li hanno accolti: forse un pensiero in meno.
L’Europol ha lanciato l’allarme: diecimila minori non accompagnati entrati in Europa nel 2015 sono scomparsi dopo il loro arrivo, 6000 solo dall’Italia. Probabilmente sono finiti nelle mani di una rete criminale internazionale per avviarli alla prostituzione o alla schiavitù. Fuggiti dalla fame o dalla vendetta di terre senza libertà molti, arresisi già prima nel deserto che li ha visti spirare, o sopravvissuti all’arsura, al tormentato viaggio, al contratto infame con mercanti senza pietà, hanno visto solo da lontano la terra promessa mentre le onde li avvolgevano e li consegnavano alle profondità del mare. Non fa più notizia la loro tragedia, non è cronaca spendibile dalle prime pagine: è solo routine. Non fa più notizia che giovani vite spariscono nel nulla. Anzi la notizia non passa. Possibile che ci si abitui al disastro di uomini senza speranza se non quella di morire, all’assurdo di un uomo violentato, derubato della sua dignità? Tra le mani mi ritrovo frasi di Nazim Hikmet, il grande poeta turco, uno dei più grandi poeti del ventesimo secolo amico di Pablo Neruda, che dalla sua prigionia canta l’amore nell’ultima lettera al figlio Nefer. “Non vivere su questa terra come un estraneo o un turista della natura. Vivi in questo mondo come nella casa di tuo padre: credi al grano, alla terra, al mare, ma prima di tutto credi all’uomo. Ama le nuvole, le macchine, i libri, ma prima di tutto ama l’uomo. Senti la tristezza del ramo che secca, dell’astro che si spegne, dell’animale ferito che rantola ma prima di tutto senti la tristezza e il dolore dell’uomo. Ti diano gioia tutti i beni della terra: l’ombra e luce ti diano gioia, ma soprattutto a pieni mani ti dia gioia l’uomo”.
Proprio così: ti dia gioia l’uomo! C’è qualcosa che non capisco, qualcosa si è inceppato se vale la pena raccontare con tanta commozione di delfini che si arenano, di balene che perdono la rotta, di falchi che si azzoppano, di cagnolini che non vanno abbandonati e nel frattempo, nello stesso momento in cui la nostra pietà veste le attese di giustizia per i nostri amici animali, tanto da fondare perfino un partito animalista pronto per le prossime elezioni politiche, ci si abitua allo sterminio di popoli in cerca di pane, al morire di uomini e donne innocenti sulle nostre sponde, a ragazzi che chiedevano asilo ma scomparsi nel nulla. Prima di tutto l’uomo, canta Nazim, prima le donne e i bambini si diceva una volta. Schiavi di ieri, schiavi di oggi: non basta un benvenuto per liberarli dalle catene.
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