Quando piove e fa freddo Roma per abitudine si paralizza. Dunque era singolare, l'altra sera, vedere una lunga fila di persone in attesa davanti l'ingresso di Palazzo Barberini, al Museo di Arte Antica. Ancora più singolare sapere che quelle persone erano in fila per assistere a un dialogo sulle avanguardie del Novecento e per vedere in anteprima il film “Marinetti a New York” interamente girato nella Grande Mela.
Dunque il messaggio di quegli artisti visionari, spesso incompresi nel loro tempo, oggi attira l'interesse di un pubblico vasto. Ne è convinto da sempre, d'altronde, il critico d'arte Philippe Daverio, grande studioso delle avanguardie del ‘900, chiamato a Palazzo Barberini per raccontare quali e quante incredibili intuizioni artisti come Picasso, Boccioni, Klimt, Klee, Marinetti avevano saputo fecondare mentre l'Europa precipitava nell'incubo di due guerre in vent'anni.
Daverio ne ha discusso con Massimiliano Finazzer Flory, che con i-Italy negli USA produce e realizza “Marinetti a New York” , film che ha ideato, interpretato e diretto. Un lavoro molto originale ed intenso, di grande effetto, filmato intereamente nella Grande Mela, con la co-regia di Matteo Banfo e Mattia Minasi.
“E' da tanti anni ormai che in Italia, e non solo, gli artisti della prima metà del ‘900, a partire dai Futuristi, sono stati riscoperti dal pubblico – dice Daverio – il fatto è che l'Italia non se ne è accorta. Basti pensare che non abbiamo una struttura che in qualche modo raccolga e racconti il loro lavoro”.
Bene, benissimo anzi, a iniziative come “Marinetti a New York” che raccontano il genio del Futurismo immaginando un viaggio spazio-temporale nel nostro tempo. Per molti anni alcune espressioni artistiche novecentesche, e in particolare proprio il Futurismo, sono stati marchiate a fuoco per questioni ideologiche: troppo vicine al fascismo.
“Ma questo non c'entra nulla oggi – dice Daverio – nessuno sa più cosa sia il fascismo. Non si tratta di una dimenticanza dovuta all'ideologia. E' una semplice distrazione: d'altronde l'Italia si è anche dimenticata di festeggiare i suo 150 anni dall'unità nazionale”.
Come l'Italia non si rende conto – dice ancora Daverio – dell'incredibile potenzialità del pubblico colto e interessato agli eventi d'arte che detiene: “Si tratta del 5% della popolazione. Poco? Tantissimo! Sono 3 milioni di persone, metà della Confederazione Elvetica! Ed è un pubblico flessibile, interessato, appassionato”. Ma, nei fatti, abbandonato.
Soprattutto perché, ha detto Daverio dialogando con Finazzer, ancora oggi la struttura del museo è vecchia, stantia, si costringono le persone a fruire di opere complesse in pochi minuti, in spazi ristretti. “Io sono dell'idea che non ci dovrebbe essere un biglietto di ingresso per i musei, ma un abbonamento”, ha detto Daverio, lanciando una delle sue serissime provocazioni.
“E' una follia pensare di entrare in un museo come gli Uffizi la mattina e uscirne quattro ore dopo con i piedi gonfi. Ma che modo è? Si dovrebbe entrare in posti come quelli e vedere uno, due quadri. Poi tornare, e tornare ancora”. Ogni quadro un incontro, una storia. Di più: il concentrato dell'epoca in cui venne concepito. “Non si può capire Klimt senza ascoltare Mahler – ha detto Daverio – d'altro canto è significativo che i titoli delle opere della prima metà del Novcento contengono sempre il termine 'improvvisazione' o 'composizione', proprio come nella musica”.
Le arti e gli artisti dell'inizio del secolo scorso erano come “in ascolto”, in relazione tra loro e in relazione con la loro epoca. “Figli” delle rivoluzioni tecnologiche del tempo: l'energia elettrica, l'automobile, l'abbassamento del prezzo della carta sono tutti elementi che ebbero un grandissimo impatto sulla comunicazione visiva e sulle epressioni artistiche in generale. E quelle “élite”, inserite in una società di massa, riuscivano a essere avanguardie colte di una società che andava compatta in una stessa direzione (nel bene e nel male).
Tutto il contrario di oggi. La nostra, ha spiegato Daverio, è una società parcellizzata, in cui non esistono grandi vettori di interesse comune ed è difficilissimo trovare artisti capaci di leggere in modo immediato questo tempo. Tanto che, secondo il critico d’arte, esistono o “avanguardisti che fanno gli avanguardisti da vent’anni, il che è un controsenso” o artisti che interpretano l’ironia, uno dei motori delle avanguardie di inizio secolo scorso, “con la provocazione e non più con il raffinato equivoco intellettuale. Insomma, per usare un termine tecnico, con la pirlata”.
Sarà per questo che la proiezione di 25 minuti del film “Marinetti a New York” ha tanto emozionato la sala gremita.
Il Marinetti di Finazzer Flory sembra parlare delle nostre città, di quello che conosciamo sin troppo bene: di una società in movimento, veloce, a volte spietata ma comunque “colorata”, eccitante, formidabile.
L'energia e la volontà di andare “oltre” che emerge dai passi degli scritti di Marinetti selezionati da Finazzer ricordano che i Futuristi credevano in una società egualitaria, forte, giovane, capace di vivere il proprio tempo. L'ormai anziano poeta, interpretato da Finazzer, che si aggira per una New York di oggi, luminosa e modernissima, sembra quasi essere arrivato “a casa”, sembra camminare nelle strade che ha sempre immaginato. Finazzer ha regalato a Marinetti il viaggio che probabilmente avrebbe voluto fare.
“Ma è un Marinetti che in alcun tratti è sofferente, pensieroso, consapevole di essere stato un incompreso nel suo tempo in patria – ha detto Massimiliano Finazzer Flory – E' perduto, ma non perdente, perché ciò che lui aveva intuito si è verificato. Solo che New York si è realizzata. Lui no”.
“Bisognerebbe farlo girare nelle scuole, farlo vedere ai giovani”, riflette a voce alta uno degli spettatori alla fine della proiezione.
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