“Filippo La Porta studia la letteratura considerando tutti i cambiamenti che colpiscono la nostra società contemporanea con uno sguardo che va al di là della pagina stampata e si allarga fino a coinvolgere tutti gli esseri umani che queste pagine le scrivono e soprattutto le leggono” ci spiega Stefano Albertini direttore della Casa Italiana Zerilli-Marimò.
“Ho scoperto tardi di essere italiano” ci racconta scherzando La Porta “Mi è successa la stessa cosa accaduta a Sergio Sollima , un famoso sceneggiatore degli anni settanta, appassionato di film western sin da bambino.
Quando a sette anni il padre gli disse che in realtà non era americano ne rimase molto traumatizzato” continua il professore “Io ho subito un trauma simile scoprendo molto tardi cosa significasse essere italiano".
In un periodo così tormentato della nostra storia La Porta si domanda inevitabilmente cosa possa rimanere di quella che fu la nostra grande tradizione italiana.
L’Italia infatti è stato un paese che per almeno tre o quattro secoli ha espresso un’eccellenza poi andata scemando con l’avvento della modernità. “Mi chiedo spesso cosa rimane di questa grande tradizione. Come si può declinare oggi l’identità italiana?” si domanda il professore, e la domanda non risulta così scontata.
L’autore ci spiega che sia ancora possibile parlare di identità italiana nel mondo in senso virtuoso anche in un contesto di mercato sempre più globale.
“I discorsi che si fanno sui caratteri nazionali pur non essendo discorsi scientifici , sono comunque delle narrazioni con cui ognuno di noi si deve confrontare. L’immagine degli italiani, l’immagine che l’italiano ha di se stesso e l’immagine di come l’italiano viene percepito all’estero sono basi fondamentali sulle quali riflettere”.
L’idea del “bel paese” risulta ben chiara sin dall’antichità, declinata nei più differenti modi da Dante, Petrarca, Machiavelli e Pascoli fino ad arrivare al libro “il bel Paese” dell’Abate Stoppani.
Questa bellezza viene poi analizzata anche da Carlo Levi nell’introduzione di un libro di fotografia degli anni sessanta. L’autore si interroga sul punto di giuntura che unisce gli italiani e arriva alla conclusione che ciò che lega il popolo italiano è il senso della bellezza e dell’amore per la bellezza, un qualcosa che va quindi oltre il semplice patto sociale o la tradizione militare.
Ma cosa si intende per bellezza? A questa domanda risponde Paolo Sorrentino con il tanto discusso film “ La grande Bellezza” che racconta con un titolo antifrastico proprio il tramonto del bel paese.
Un paese dove la bellezza si ritira da tutto, dalla vita sociale, spirituale e dall’arte contemporanea, quasi sbeffeggiata nel film di Sorrentino.
La città di Roma che il regista ci presenta è una città monumentale e allo stesso tempo quasi funerea fatta di cupole avvolte da nebbia. “Ho pensato molte volte che Roma sarebbe più bella senza i suoi abitanti perché è una città d’arte, una città monumento ed è come se dovesse durare più del suo reale ciclo storico”
“Sorrentino racconta la fine del bel paese, ma la racconta in modo bello. Questa contraddizione è tipica dell’arte, che ha uno splendore formale e una straordinaria potenza visiva” ci spiega La Porta.
Il fatto che la bellezza sia finita significa che nella nostra grande tradizione la bellezza non è soltanto un fatto estetico, come diceva anche Carlo Levi. Ma la bellezza nella tradizione italiana è un modo di vivere, un modo di essere e di relazionarsi agli altri. La bellezza è civiltà. “Il bello non è separato dal vero e dal buono” continua La Porta “ma le cose cominciano a degenerare quando il bello si separa dal vero e dal buono e diventa qualcosa di estetizzante, una decorazione, un ornamento”.
Questa bellezza fallace, già riscontrata nelle ampollose descrizioni di D’Annunzio è poi ripresa proprio in Sorrentino .
Roma, con le sue bellezze e la sua storia è protagonista indiscussa nell’immaginario culturale italiano e mondiale. Ma si tratta di una Roma che non mantiene tutte le sue promesse, mantiene solo quelle che non fa. Per quanto possa sembrare paradossale pensare a Roma in maniera distaccata dalla sensibilità religiosa, la città finge una spiritualità che nel profondo probabilmente non le appartiene. Roma infatti è una città che nasconde l’eterno dell’effimero, come scriveva Francisco Quevedo “A Roma tutto ciò che è stabile vola via e soltanto il fuggevole rimane per sempre”. Ed è proprio questa l’idea disincantata che La Porta vuole trasmetterci con il suo nuovo libro “Roma è una bugia”.
“Roma è una specie di palude, diventata la capitale burocratica dello stato italiano” ci racconta lo scrittore spiegandoci ancora che “la capitale è una città nella quale i romani hanno già visto tutto e hanno percepito l’eterno ritorno delle vicende umane e storiche”. Ed è proprio questa idea di ciclicità a far capire come tutto ciò che avviene a Roma poi sia destinato a finire.
“Roma diviene una città un po’ inafferrabile che da una parte ti spegne ma dall’altra ti da molta energia con la sua idea di un’apocalisse sempre rimandata” commenta La Porta.
Con il boom economico degli anni Ottanta l’Italia fu protagonista del rilancio del made in Italy. I prodotti italiani fatti di food, fashion e forniture considerati di nicchia, venivano esportati in quasi tutto il mondo. “Tutto questo se da una parte ha portato ad una grande crescita economica, dall’altra ha cominciato a sbiadire i colori di una grande tradizione”.
L’identità italiana è stata fissata nei secoli nei suoi stereotipi con vizi e virtù: da una parte il nostro scarso senso civico, la nostra intelligenza furbesca e a volte il familismo amorale bilanciati però dal nostro inesauribile talento creativo, la capacità di adattamento e la forza di sopravvivenza.
“Non è possibile oggi per noi inventarci una nuova identità italiana, queste sono tutte delle caratteristiche storiche con cui dobbiamo fare i conti, sviluppandole magari in senso virtuoso” commenta La Porta rifacendosi a Carlo Levi “il punto focale è capire bene come sono fatti gli italiani e sviluppare queste qualità positive”.
E La Perla non ha una visione apocalittica dell’Italia. “Per ritrovare una continuità con questa tradizione fatta di grande bellezza bisognerebbe tornare a una semplicità che non esclude la complessità sia nell’arte che nei modi di vivere”.
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