MORIRE da soli senza conforto, sempre più spesso nessuno accanto.
La morte ha cambiato il volto della società di massa e sta cambiando velocemente anche quella meridionale. Se la fine della vita fa parte ancora della vita, non si può lasciare un uomo morire da solo.
Un vivente è tale fino all’ultimo respiro e conserva un diritto naturale al rispetto della sua condizione anche durante l’agonia. La cura non è solo arte del guarire, ma dignità da difendere fino all’ultimo istante.
La tendenza a considerare i morenti come se facessero parte già del passato ha allargato il numero di chi preferisce farla finita prima che la propria dignità venga compromessa da una morte indecorosa. Abbiamo nascosto la morte e così abbiamo disumanizzato il morire esasperando i guasti che non consentono una fine dignitosa: la miseria di morire in solitudine e la miseria di non avere lo spazio di solitudine necessario per morire. Ma è soprattutto il morire da soli che è diventato un inferno per tanti, per troppi: nessuna protezione, nessun accompagnamento.
Diverso da un tempo quando nei vicoli e nei condomini della nostra città si viveva il dolore come condizione da spartire. Era facile che nel tuo stesso palazzo qualcuno venisse a mancare, e tu facevi parte dell’avvenimento, non ne eri escluso, né volevi esserlo. Imparavi dalla morte la vita: le lacrime, la disperazione della perdita, la dignità, la ritualità dei gesti. Ma anche la solidarietà, la compagnia che rinsaldava i rapporti, che riallacciava dialoghi interrotti, che poneva ciascuno dinanzi all’avvenimento doloroso senza infingimenti.
Era qualcosa che era avvenuto in quella determinata casa, era il dolore di quel tale vicino, era morte che non ti apparteneva, ma non potevi non avvertirla come convocazione alla compassione. Ognuno offriva il suo sostegno: chi vestiva il defunto, chi avvisava i familiari e i conoscenti, chi prestava gli abiti necessari per il funerale, forse da poco smessi per il tempo di lutto, e chi preparava, come si diceva tra povera gente, il «cuonsolo », la consolazione del cibo.
Una liturgia strana, ma fatta di storie che si passavano, incrocio di dolore, di amicizie che nascevano e che si rinsaldavano; era un parlare con la morte e sciogliere il dolore nella partecipazione al dolore degli altri.
E non di rado in quella notte d’attesa, dinanzi al travaglio di chi trapassava, era facile ricordare la sua avventura umana, le sue peculiarità, le sue stranezze e quel ricordo spontaneo fissava per sempre nella memoria la vita di chi se ne andava, la rendeva presente al di là dello straziante silenzio. Poteva perfino capitare che parlando della vita di chi se ne andava potesse scappare un sorriso tra le lacrime.
La vita, quando è vita, la si acchiappa per intero! La morte era avvertita come parte della propria storia, senza nasconderla, e non per questo meno dolorosa, ma vera e per questo più vivibile. Non era storia da consumare da soli, ma con tanti compagni, amici da tempo o occasionali, forse propri nati da quel dolore.
Tempo passato, dirà qualcuno, la società è cambiata, difficile riprodurre modelli divorati dal deserto causato oggi dal riflusso nel privato, impossibile reinventare stili di vita semplici che in assenza di strutture pubbliche adeguate, aiutino il morente e la sua famiglia riempiendo il vuoto angosciante causato dalla morte.
Tuttavia, una società progredita non può abdicare al suo dovere di essere al servizio dell’uomo fino alla morte e sentirsi giustificata dall’assenza al suo capezzale per il solo fatto che il medico abbia pronunciato la sentenza definitiva che sembra non lasciare margini alla compassione: “Non c’è più niente da fare”.
Se è vero che arriva il tempo in cui ogni terapia è ritenuta inutile, il tempo dell’accompagnamento alla morte è necessario quanto e più di ogni altra cura.
La lunga esperienza dei centri di cure palliative in altri paesi come la Gran Bretagna, il Canada, e gli Stati Uniti la dice lunga sulla differenza di civiltà dal nostro paese e di attenzione alla condizione dell’ultimo istante che permette di affermare che le sofferenze fisiche, il dolore, possono essere soppresse o alleviate; che la sofferenza morale dei malati in fin di vita e delle loro famiglie può essere attenuata con l’aiuto di volontari formati a tale scopo; che la realizzazione di progetti personali e sociali, così come l’espressione di desideri, di volontà, di opinioni o ancora della fede religiosa dei pazienti, restano possibili fino alla fine.
Ma forse questa è una altra storia o forse questa è la drammaticità della nostra: dimmi come sei accompagnato alla morte ed io ti dirò in quale paese vivi, perché fino alla morte, il morente è un vivente.
* Gennaro Matino è docente di Teologia pastorale. Insegna Storia del cristianesimo. Editorialista di Avvenire e Il Mattino. Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread”
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